Le malelingue suggeriscono che le parole taglienti di Marcello Pera, ex presidente del Senato e tra le poche riserve blasonate del centrodestra, siano dovute all’irritazione per non essere stato lui a gestire la partita delle riforme. 

Così, letto il controverso disegno di legge costituzionale sul premierato prodotto dalla ministra delle Riforme Elisabetta Casellati con il costituzionalista di riferimento del governo Francesco Saverio Marini, Pera ha assestato un attacco forte e mirato. E tanto più doloroso per il governo che ha incassato dall’accademia solo pareri fortemente critici, a cui ora si somma anche quello di colui a cui Giorgia Meloni voleva affidare proprio «la madre di tutte le riforme».

La premier, quando gli aveva chiesto di tornare in parlamento come quota liberale tra le file di Fratelli d’Italia, glielo aveva adombrato: la sua esperienza sarebbe servita a gestire il capitolo più delicato delle modifiche all’impianto costituzionale. 

Una strada – quella della commissione bicamerale – che non dispiaceva alle opposizioni, che riconoscevano a Pera l’autorevolezza di trovare una linea di dialogo bipartisan, e nemmeno ai costituzionalisti, anche i più critici rispetto al presidenzialismo, che così speravano di salvaguardare la riforma costituzionale, almeno durante la sua stesura, dal fuoco incrociato della politica.

Invece Casellati ha combattuto perché il suo ministero delle Riforme mantenesse la prerogativa, appunto, di scriverle. Pera, entrato in parlamento come presidente in pectore di una bicamerale, è rimasto così senatore semplice e, con l’indipendenza data dalla storia politica e un pizzico di vendetta, non ha addolcito alcuna critica alla creatura di Casellati.

Le critiche

Il cannoneggiamento era cominciato con una intervista al Sole 24 Ore ed è proseguito con il bis su Repubblica, quotidiano non certo amato dal governo. «Dubbi tecnici», li chiama lui, che «forse aggravano» invece che risolvere il problema della stabilità.

Il primo colpo viene assestato alla cosiddetta norma “anti-ribaltone”, secondo cui il primo ministro sfiduciato può essere sostituito dallo stesso parlamento una sola volta prima di tornare obbligatoriamente al voto e solo con un parlamentare della stessa maggioranza. «Ma se il primo ministro non ha il potere di sciogliere le camere non siamo nel regime del premierato», dice Pera, che avrebbe preferito il meccanismo del “simul stabunt simul cadent”, e quindi che governo e parlamento cadano insieme in caso di mancata fiducia.

Il secondo attacco riguarda la decisione del governo di toccare in modo limitato i poteri del capo dello Stato: «Questa che ad altri sembra una virtù, a me sembra un difetto».

Il colpo di grazia è sull’inserimento in Costituzione del premio di maggioranza al 55 per cento: «Sono contrario a mettere nella Carta i paletti per la legge elettorale».

Pera si aggiunge così al coro di critiche, ma è il primo a farlo dalla maggioranza. Prima di lui, un segnale era arrivato anche da altri due grandi vecchi ed ex presidenti della Consulta come Sabino Cassese e Giuliano Amato.

Tecnici considerati benevoli nei confronti del governo ma anche acuti lettori delle dinamiche politiche (oltre che studiosi delle istituzioni), avevano preso le distanze dal testo. Un avvertimento chiaro che Pera ha tradotto in segnale politico a Meloni.

Le critiche si potranno tramutare in emendamenti, così il cantiere della riforma si aprirà in commissione Affari costituzionali di cui Pera è membro.

 

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