L’ultima volta che ero stato al Circo Massimo, circondato dalla folla, dietro un grande carro con sound system, era avvenuto alla manifestazione del 25 novembre scorso dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin, mezzo milione di persone, lo slogan era Siamo marea. Circo Massimo è un luogo segnato per il mondo delle adunate politiche del mondo di sinistra, il movimento operaio, la piazza antifascista, pacifista, femminista, i due milioni scesi con i sindacati nel 2002, la gigantesca mobilitazione per la pace del 2003: tre milioni per le strade, Circo Massimo stracolmo, un miliardo di persone in tutto il mondo, la più grande manifestazione della storia.

Oggi il governo sembra che voglia intenzionalmente risignificarlo: dall’8 al 15 dicembre si terrà la festa di partito di Fratelli d’Italia, Atreju, e dal 1° novembre fino a lunedì 4 novembre tutta la piana del Circo Massimo si trasforma nel Villaggio Difesa, una kermesse delle forze armate, un festival della divisa, con tag #4novembre, anniversario dell’armistizio della Prima guerra mondiale, da sempre la data da commemorare simbolo di quel mondo che si riconosce nella nuova egemonia di governo, postnovecentesca, di destra, nazionalista. Lo slogan è SìAmo l’Italia, il gioco di parole legnoso ma chiaro.

Ed è da riconoscere che, al di là della propaganda di governo, questa cultura non soltanto non è più di nicchia, ma ha trovato una formula istituzionale per autorappresentarsi. Del resto furono prima Ciampi e poi Napolitano a immaginare una nuova pedagogia patriottica. Il risultato è Villaggio Difesa.

Dalle dieci di mattina, orario di inaugurazione, sotto un sole ancora praticamente estivo c’è un assembramento di famiglie, coppie, turisti, una marea di ragazzini e bambini, per vedere gli stand di esercito, carabinieri, polizia, aeronautica, marina militare, guardia di finanza.

La fiera festiva, l’aria domenicale, le foto, i gadget, i nonni con i marsupi, i ti sta bene questa spilletta, i me lo prendi papà?, i chiediamo a zio Massimo, i ci torniamo anche domani e dopodomani, prendono corpo dentro un circo in cui ai lati sono disposte le armi tecnologicamente più sofisticate che le forze armate hanno a disposizione, in una sovrapposizione che nessuno trova stonata: il ragazzino di dieci anni con il cappellino di Geolier che si fa un selfie davanti a un mezzo anfibio che è ancora in fase di sperimentazione mentre il padre gli legge le caratteristiche tecniche: 100 km all’ora sulla terraferma, sei nodi in mare; la coppia di turisti svizzeri capitati per caso qui che però si riempiono di foto ricordo perché lui è stato nell’esercito svizzero per quindici anni; la ragazzina adolescente che si emoziona con il metal detector in mano a cercare le finte mine in un finto terreno minato; i bambini che guardano estasiati i nuovi robot caniformi Vision 60 marciare, accucciarsi, sbattere le zampe a terra (“Che possono fare?”, chiedo al tizio che li manovra, “Tutto. Dipende da quello che ci monti sopra”); accanto i cani veri, Pilar e Pollo, delle unità cinofile, addestrati per la ricerca di esplosivi, allevati dai soldati, immatricolati nell’esercito: quando andranno in pensione possono finire la loro vecchiaia nella casa dei soldati che li hanno usati per le missioni... Anche molte delle armi hanno nomi di animali, e l’effetto giardino zoologico, con i padri che spiegano ai figli l’etologia meccanica è simile: puoi avvicinarti, toccare, curiosare.

C’è l’Orso, un mezzo nuovo, destinato all’attività di sminamento, ha un rostro davanti che si occupa di creare un corridoio libero dalle mine. C’è il Raven, il corvo, un drone capace di perlustrare con 24 ore di autonomia di volo. C’è il Predator, un aeromobile a pilotaggio da remoto. C’è la Lince, battezzata San Lince, veicolo tattico leggero, «che ha salvato – attraverso la possibilità di far sganciare abitacolo e struttura – decine di soldati in Afghanistan», mi viene raccontato.

La familiarità con le forze armate è determinata anche dal fatto che qui sembra che la guerra sia lontana, che queste armi siano un po’ dei giochi, che questa parata sia esattamente uno spettacolo per famiglie.

I discorsi istituzionali

Anche il discorso ufficiale ricalca, vuole, questa retorica. Prima il capo dello stato maggiore della difesa Guido Portolano, poi il ministro della Difesa Guido Crosetto, nelle loro prolusioni ufficiali raccontano le forze armate come il cardine della democrazia, dello stato, della sicurezza delle persone.

Portolano esalta il singolo essere umano, che sta dietro l’avanzamento tecnologico degli eserciti. Crosetto si spinge a rinarrare la storia italiana contemporanea imperniata sul sacrificio della prima guerra mondiale. «La festa del 4 novembre è stata dichiarata, dalla nuova legge del primo marzo scorso, festa nazionale. Aveva perso il suo significato per ritrovarlo quest’anno».

Sembra di retrocedere a un altro secolo, nemmeno il novecento, ma l’ottocento, tra i nazionalismi, le lettere delle mogli, delle madri, dei figli, ai maschi al fronte: esattamente questo viene evocato da Crosetto, i figli dei soldati in missione che conoscono i loro padri dopo mesi dalla nascita. Eppure evidentemente in questa oratoria c’è qualcosa di suggestivo, che ha a che fare con un calorico famigliare, forse con il senso di solitudine che può essere compensato dal senso di appartenenza a qualcosa di più grande, una bandiera, un inno, una flotta. Crosetto insiste: «Le forze armate sono l’unico presidio della democrazia e della libertà».

Costituiscono, dice, l’espressione della forza e della deterrenza per la nostra libertà e per la nostra sicurezza. Questa pedagogia esplicita ha un obiettivo dichiarato, confessa: instillare quella che definisce «la cultura della difesa».

Soft power militare

Ed effettivamente, molto più che altre fragili ideologie postfasciste, conservatrici, di destra, che sembrano nostalgiche, anticontemporanee, questo militarismo riesce palesemente a avere un’attrattiva, una specie di soft power interno rivolto alle giovani generazioni. «Stiamo organizzando un concorso tra le scuole per capire come sono percepite le forze armate tra gli studenti», mi dice un ufficiale che si occupa di comunicazione. «Ci teniamo molto a un avvicinamento che vuol dire anche conoscenza reciproca. Lo slogan SìAmo l’Italia indica proprio questo».

È strano come circondati dalla tecnologia bellica più avanzata, dalla possibilità di fare delle dirette con gli ufficiali di stanza nei teatri operativi, dall’Afghanistan al Libano, la guerra sembri così lontana. Il ministro Crosetto risponde alle domande dei giornalisti sulla guerra a Gaza con toni pacati, velleitari, da moral suasion. La militarizzazione progressiva della società sembra configurarsi come la nuova normalità.

Del resto da quanti anni i soldati presidiano le strade con l’operazione Strade sicure? Doveva essere una misura d’emergenza, temporanea, ma ancora oggi 7mila soldati sono schierati lì.

I militari sono e saranno chiamati a occuparsi di tutto, sempre di più, viene ribadito: antiterrorismo, eventi calamitosi, pandemie. Il Pil italiano, viene detto, deve essere portato al due per cento proprio per quello, per fare delle forze armate, della spesa militare, il carburante per l’avanguardia della ricerca, e una componente fondamentale dell’industria nazionale.

Per chi, come la mia generazione, cresciuta con il mito del pacifismo, dell’antimilitarismo, dell’obiezione di coscienza, delle manifestazione contro D’Alema per le armi mandate in Jugoslavia, con la fine della leva, è come sentire di essere invecchiati in pochi anni, di stare già ora vivendo in un’altra epoca, in cui “la cultura della difesa” è una nuova forma di ideologia per affrontare i tempi perennemente bellici, in cui le forze armate non si occupano soltanto di piccoli teatri di guerra, dislocati in limitate aree a rischio, come forze di interposizione, di peacekeeping, ma magari dovranno affrontare eserciti nazionali, e per questo serve professionalizzazione, ma soprattutto una sorta di culto.

«L’eroismo del nostro passato si collega all’eroismo quotidiano del nostro presente», conclude il suo discorso Crosetto, evocando i soldati del 1918 e quelli del 2024. Ho i brividi anche se il sole porta la temperatura a 25 gradi. Vorrei almeno un cicchetto anche se è mezzogiorno. Ma ai punti ristoro, battezzati Sosta tricolore, non servono alcol.

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