- Da Kiev toni pacati, non fa paragoni con la Resistenza italiana ma «Il mio popolo è diventato un esercito». «A Mariupol non c’è più niente, solo rovine, pensate se fosse Genova». Nuova richiesta di aiuto e di sanzioni contro Putin.
- Draghi invece calca i toni: «L’Italia vuole l’Ucraina nell’Ue». Poi allude a nuovi invii di armi, una possibilità concreta.
- Ma il parlamento non è più quello dei primi giorni di guerra. La Lega e i Cinque stelle sono in difficoltà, e anche nel Pd affiora qualche soffero dissenso verso i toni interventisti dell’inizio.
Va tutto diversamente rispetto a quello che l’aula del parlamento italiano si aspetta, e che forse vorrebbe sentirsi dire, tributando la prima delle tre standing ovation a Volodymyr Zelensky quando alle 11 quasi in punto appare sugli schermi ai due lati dell’emiciclo di Montecitorio. La seduta è congiunta, la Camera è affollata, ma non abbastanza da coprire le tribune mezze vuote: c’è qualche assente fra le file dei Cinque stelle, i soliti noti non solo fra gli ex, e della Lega.
Alcuni però sono più assenti di altri: non c’è l’ex premier Giuseppe Conte. In compenso, si fa per dire, alcune senatrici si sono vestite di giallo e blu, i colori della bandiera ucraina; colori che i renziani portano nelle spillette; giallissimi sono i tacchi a spillo il foulard e la Birkin di Daniela Santanché.
E invece la guerra contro l’Ucraina è una cosa maledettamente seria. Zelensky riferisce di aver appena spiegato a papa Francesco che il suo popolo «è diventato un esercito». Per i 12 minuti in cui parla tiene i toni molto più sorvegliati delle volte precedenti davanti ad altri parlamenti. Mario Draghi, dal centro dei banchi del governo, invece alza i toni. È quasi uno scambio di parti. Forse perché entrambi, in proporzioni diverse, hanno qualcosa non da farsi perdonare – non certo Zelensky, l’invasione russa diventa più sanguinosa di ora in ora, non gli si chiede né bon ton né controllo dei sentimenti – ma da aggiustare.
Cambio di registro
Zelensky stavolta non dice «potrebbe essere l’ultima volta che mi vedete vivo», come ha fatto il 25 febbraio davanti agli europarlamentari, anche se oggi è più vero di allora, dice «siamo al limite della sopravvivenza».
Ringrazia per gli aiuti umanitari italiani, si appella all’inasprimento delle sanzioni contro gli oligarchi russi, «non è possibile che l’Italia sia ancora il luogo per le loro vacanze»; non chiede la no-fly zone sui cieli del suo paese come ha fatto nella piazza di Firenze; ormai sa che trova solidarietà per le città bombardate, ma in concreto significa chiedere un allargamento del conflitto. Zelensky non nomina Putin quando dice che la guerra è organizzata «da un uomo solo», non parla della resistenza italiana, anzi per una volta non fa paragoni con la storia nazionale del parlamento a cui si rivolge. Forse vuole evitare polemiche, come quelle del giorno prima per aver equiparato davanti alla Knesset di Gerusalemme la «soluzione finale» minacciata da Putin contro il suo popolo e alla Shoah.
Genova come Mariupol
Da noi Zelensky resta al di qua della storia, certo fa un passaggio sui militari russi che «violentano, rapiscono i bambini, distruggono, e con i camion portano via anche i nostri beni» come «è stato fatto in Europa dai nazisti», ma per agganciare il cuore del «popolo italiano» evoca la città di Genova, racconta di esserci stato, la paragona a Mariupol dove «non c’è più niente, solo rovine. Immaginate una Genova completamente bruciata dopo tre intere settimane di assedio, di bombardamenti, di spari che non smettono neanche un minuto. Immaginate la vostra Genova dalla quale scappano le persone a piedi con le macchine, con i pullman, per arrivare dove è più sicuro».
E invece è il presidente italiano a pronunciare le parole che finora non aveva detto. Mario Draghi fin qui è stato sospettato da un pezzo della sua maggioranza di essere troppo tiepido, troppo defilato dalla trincea del fronte orientale. C’è stato anche un piccolo incidente diplomatico fra lui e Zelensky, nelle prime ore della guerra, un appuntamento telefonico a cui Zelensky non ha potuto presentarsi. Per questo Draghi usa parole chiarissime quando dice al presidente che «l’Italia vuole l’Ucraina nell’Unione europea».
A palazzo Chigi non sfugge che la faccenda è regolata dai trattati e che scorciatoie non sono all’orizzonte, ma l’affermazione ha il senso di uno schieramento politico. Draghi elenca le iniziative che l’Italia, primo paese a mandare aiuti a Kiev, sta facendo per i profughi ucraini: «Vogliamo aiutare i rifugiati non solo ad avere una casa, ma anche a trovare un lavoro e a integrarsi nella nostra società. Come hanno fatto i 236mila ucraini che già vivono in Italia».
Fa un passo più avanti, e stavolta si rivolge anche al suo parlamento: «La resistenza di tutti i luoghi in cui si abbatte la ferocia del presidente Putin è eroica», offre nuovi aiuti, «a chi scappa dalla guerra dobbiamo offrire accoglienza, di fronte ai massacri dobbiamo rispondere con aiuti, anche militari, alla resistenza».
Non è un annuncio di nuovi invii di armi, non ancora: la situazione ucraina può peggiorare, le camere devono mettere in conto la possibilità di nuovi stanziamenti, anche di materiale bellico. Se sarà, non sarà un passaggio facile. Il leghista Matteo Salvini, pacifista dell’ultim’ora, fa già sapere «di non essere felice» a parlare di armi (non era così ai tempi in cui invocava le carabine per la difesa personale); è lo stesso sentimento dei Cinque stelle; e anche a sinistra il Pd deve fare i conti con un malessere affiorante verso qualche eccesso di interventismo del segretario, a cui ha dato voce l’ex ministro Graziano Delrio.
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