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Il taglio dei parlamentari ha provocato esclusioni eccellenti e proteste. L’ex renziano: «Scuse vigliacche». Franceschini, Zingaretti e Orlando blindati. Il segretario non piazza fedelissimi e accontenta tutte le correnti
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Molti candidati sono insorti perché si sono visti assegnati posizioni nelle quali sarà molto difficile farsi eleggere. Alcuni, come Stefano Ceccanti e Alessia Morani, entrambi vicini a Base riformista, hanno già annunciato che intendono rinunciare alle candidature che gli sono state offerte.
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Da vero generale senza truppa, e senza correnti, Letta ha invece messo il suo cappello sulla candidatura di quattro under 35, tutti militanti o giovani dirigenti del partito.
Nella scelta dei candidati, il segretario del Pd Enrico Letta ha provato in ogni modo ad accontentare tutti: le fameliche correnti interne del partito, i potenti presidenti di regione, il partito dei sindaci e i piccoli e piccolissimi alleati. Ma con un numero di seggi che passerà dai circa 160 usciti dalle elezioni 2018 a 80-100, soddisfare tutti era impossibile. E così, all’alba della riunione notturna che ha portato alla composizione delle liste, è partito il fuoco di fila degli esclusi.
Letta ha dovuto pestare parecchi piedi, ma nessuno dei capicorrente e dei maggiorenti del Pd è stato trascurato. Lorenzo Guerini, leader della corrente della destra Pd Base riformista, Andrea Orlando, leader della sinistra Pd e il suo alleato e vicesegretario Pd Peppe Provenzano sono tutti candidati capolista al proporzionale. Dario Franceschini, ministro della Cultura e leader della corrente centrista AreaDem sarà candidato come capolista del Pd a Napoli, mentre a Roma ha trovato posto la moglie e consigliera regionale, Michela Di Biase.
Anche l’ex segretario Nicola Zingaretti ha un posto da capolista in Lazio, così come il suo storico rivale Matteo Orfini, leader della corrente dei Giovani turchi. Anche i potenti presidenti di regione hanno detto la loro: Vincenzo De Luca in Campania, dove tra gli altri ha ricandidato il figlio Piero, e Michele Emiliano in Puglia, che ha espresso il placet sulla lista e blindato il suo capo di gabinetto, Claudio Stefanazzi, riuscendo a imporre una completa esclusione delle donne da tutte le posizioni di capilista.
Gli esclusi: pochi
Anche se la giornata di martedì ha visto Twitter e le agenzie incendiarsi per le dichiarazioni degli esclusi dalle liste e dei loro amici e alleati, sono relativamente pochi i nomi dei parlamentari che Letta ha completamente escluso dalle liste.
La sorte peggiore è capitata probabilmente alla piccola corrente dei Giovani turchi, che ha perso i deputati Giuditta Pini in Emilia (dove torna invece il nome di Pierferdinando Casini, candidato all’uninominale di Bologna) e Fausto Raciti in Sicilia. L’escluso più noto è probabilmente Luca Lotti, ex braccio destro di Matteo Renzi ed ora sotto processo per il caso Consip, oltre ad essere stato coinvolto nelle famose intercettazioni del giudice Palamara.
Molti candidati sono insorti perché si sono visti assegnati posizioni nelle quali sarà molto difficile farsi eleggere. Alcuni, come Stefano Ceccanti e Alessia Morani, entrambi vicini a Base riformista, hanno già annunciato che intendono rinunciare alle candidature che gli sono state offerte.
Ma quasi tutte le correnti devono sacrificare almeno qualche nome noto. Tra gli zingarettiani, il cui leader è candidato a Roma, è stata esclusa l’ex ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli, mentre la prima firmataria delle leggi sulle unioni civili, Monica Cirinnà, è candidata in un difficile uninominale del Lazio.
La sinistra Pd ricandida Gianni Cuperlo, che aveva saltato le elezioni 2018, ma in una terza posizione in Lombardia che non sembra garantita. Malumori sono sorti invece tra gli esponenti di Articolo 1, confluiti nella lista del Pd ma con soli tre posti sicuri, tra cui quello per il leader Roberto Speranza, e tutti gli altri disseminati in collegi considerati persi. «Trattati in modo non dignitoso», è stata la sintesi di un dirigente del partito, che aveva spinto per il rientro nel Pd.
E i fedeli di Letta?
Se Renzi nel 2018 aveva assegnato ai suoi circa il 60 per cento dei seggi (da qui l’inevitabile sfoltita dell’erede di quel gruppo, Base riformista), Letta è nella situazione opposta: bisogna spulciare con il microscopio le liste per trovare i suoi fedelissimi. Ad esempio, il suo segretario politico Marco Meloni, candidato al senato in Sardegna, o il suo amico personale Mauro Berruto, ex allenatore della nazionale di pallavolo, candidato in Piemonte.
Da vero generale senza truppa, e senza correnti, Letta ha invece messo il suo cappello sulla candidatura di quattro under 35, tutti militanti o giovani dirigenti del partito. Letta stesso sarà candidato come capolista alla Camera in Lombardia e in Veneto: sarà uno dei pochissimi, insieme al suo vice Provenzano, ad avere candidature multiple: una delle poche promesse di rinnovamento davvero mantenute.
Ora Letta deve scommettere che queste liste faticosamente compilate lo premieranno non tanto alle urne, dove sondaggi e ricerche ci dicono che i candidati contano fino a un certo punto, ma nel dopo elezioni. Correnti e capibastone lo ringrazieranno dandogli tregua, o dopo il voto ricomincerà lo stillicidio già costato caro a tanti suoi predecessori?
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