Carola Rackete, 35 anni, la comandante della Sea-Watch-3, che forzò il blocco dei porti voluto da Matteo Salvini, ha annunciato la sua candidatura al parlamento europeo con la Linke, la sinistra tedesca.

Promette: «A Bruxelles sarò un cane da guardia. Voglio comunicare i contenuti dei movimenti e comunicare ai movimenti stessi ciò che viene deciso». Patrick Zaki potrebbe avere lo stesso destino, se si superassero gli ostacoli per ottenere la cittadinanza italiana, con il Pd o più a sinistra.

Sono simboli, incarnano il sempiterno bisogno del collegamento tra i partiti tradizionali e ciò che fibrilla nei loro dintorni, un connubio spesso difficile che talvolta sfocia in fratture traumatiche, più spesso nella neutralizzazione dell’elemento alieno che, a poco a poco, viene inghiottito dalla necessità del compromesso.

L’impossibile

Che Guevara diceva: «Siamo realisti, vogliamo l’impossibile». Vinse la guerra a Cuba, diventò ministro dell’Industria e dell’economia, restò sulla poltrona dal 1961 al 1965, non resse l’esercizio dell’amministrare.

L'impossibile se lo andò a cercare in altre avventure guerrigliere in Africa, poi nella fatale Bolivia. Toccò a Fidel Castro trasformare l'eroica rivoluzione nella prassi quotidiana del potere.

Lo slogan del Che divenne popolare nei cortei del 1968, assieme a un altro: «Vogliamo il pane e le rose». Il necessario e il superfluo. Molti tra coloro che sfilavano in jeans ed eskimo di lì a poco si adeguarono alla grisaglia.

Cambiando meridiano e scenario. Il Trockij della rivoluzione permanente, l'indomito comandante dell'Armata rossa, sconfitto dallo Stalin della burocratizzazione totalitaria, dovette riparare in esilio in Messico dove fu raggiunto da un sicario del dittatore.

Disobbedienti

Venendo ai tempi più recenti, il disobbediente Luca Casarini, l'attivista No-global, dopo aver anche aperto una partita Iva (dovrà pur lavorare) finisce al Sinodo di papa Francesco. E se vogliamo la stessa Elly Schlein, un passato in OccupyPd, sta scoprendo quanto sia faticoso conciliare le diverse anime di un partito che ha l'ambizione, prima o poi, di vincere le elezioni e guidare il governo del paese.

Così come si fatica a coniugare la Giorgia Meloni di palazzo Chigi con la militante missina della Garbatella del tempo che fu. Sarà che, come vuole un adagio, spesso “si nasce piromani e si diventa pompieri”, ma non sono solo l'età e l'esperienza a smussare certi angoli radicali, vi concorre anche una dinamica più complessa e più propriamente politica.

Da movimento a istituzione

Viene in soccorso al proposito un libro del 1977, dal titolo Movimento e istituzione (il Mulino). Lo scrisse un sociologo, Francesco Alberoni, tornato ora agli onori delle cronache perché è sua la villa comprata dal compagno di Daniela Santanché e dalla moglie di Ignazio La Russa, poi rivenduta in un battibaleno (un'ora!) con un guadagno di un milione di euro.

Alberoni, 93 anni, nel 2019 candidato alle elezioni europee con Fratelli d'Italia, all'epoca del libro era già stato, tra l'altro, rettore dell'università di Trento quando là incubavano le Brigate rosse. Il suo saggio ebbe una formidabile fortuna critica. Rifacendosi a Max Weber, il sociologo, indicò lo stato nascente, «uno stato emozionale e mentale particolarissimo», come l'inizio del movimento, la creazione di una nuova storia, la promessa di un rinnovamento del mondo.

Il movimento poi si consolida e sfocia in istituzione. Sorta per realizzare il sogno di fratellanza universale, l'istituzione se ne discosta sempre più finché «oltre a un certo livello di sclerosi» deve essere rivitalizzata da un nuovo movimento.

Un paio di anni dopo userà le stesse categorie per le relazioni personali nel volume Innamoramento e amore, dove l'innamoramento è lo stato nascente, un processo della stessa natura della conversione religiosa o politica. E di conseguenza l'amore è l'istituzione.

Mentre il professore elaborava questo pensiero dalla cattedra, i suoi studenti ne avevano fatto una perfetta sintesi con uno slogan fulminante: «Il personale è politico».

Ogni movimento, anche quando si dissolve, lascia qualche traccia di sé nel discorso pubblico. Talvolta lievi tracce, talvolta profonde. Non vi è dubbio che il più celebrato tra i movimenti di massa, quello del Sessantotto, se alfine ha perso e ha visto trionfare il liberismo dilagante, ha comunque modificato nel profondo il costume. Niente sarebbe stato più lo stesso. E tuttavia ciò che interessa indagare è la difficoltà insuperabile nel mettere a terra idee estreme, anche buone idee estreme.

Finché si rimane nell'ambito del movimento, tra simili che condividono esattamente gli stessi valori, è semplice disegnare il mondo così come lo si vorrebbe. Ma è una situazione, seppur idilliaca per chi la vive, non destinata a durare nel tempo. Quando si vuole tramutare un progetto in realtà, si deve navigare nel mare aperto del confronto con l'altro che ha idee diverse, con cui bisogna competere per conquistare il consenso.

Allora subentra la prima crisi (opportunità? dalla radice greca) perché intanto la struttura che ci si deve dare obbliga forzatamente a dimenticare la dimensione anarchica dello stato nascente per creare un'organizzazione che, per quanto democratica, sarà comunque piramidale. E poi perché, anche ammesso che si raggiunga il potere, non è mai assoluto in paesi che sono comunque a sovranità militata e dove bisogna tenere conto del fatto che la politica è la rappresentazione di interessi anche molto variegati.

Dunque spuntano alcune parole “compromesso”, “concertazione” sempre aborrite e che solitamente dividono tra chi pragmaticamente vuole procedere sulla via del riformismo e chi, fedele al se stesso delle origini, si chiama fuori per rivendicare una purezza rivoluzionaria da rifondare. Una maledizione in particolare della sinistra.

Tsipras e la Grecia

Ne è cartina di tornasole la parabola, in Grecia, di Alexis Tsipras. Il leader di Syriza, un passato sia nei giovani comunisti sia nei gruppi ecologisti, vinse le elezioni con un programma estremista in una nazione sull'orlo del baratro economico e che aveva abbandonato i partiti tradizionali a causa del loro cattivo governo e delle ruberie.

Contrario al programma di austerity voluto dalla Troika per favorire il rientro dal mostruoso debito di Atene e vinto persino il referendum che bocciava gli accordi con le istituzioni finanziarie, Tsipras si trovò però poi costretto a trattare per impedire il default del paese.

E così perse per strada il ministro delle Finanze nonché suo amico e dioscuro Gianis Varoufakis, schierato a difesa di posizioni più massimaliste. Essendosi assunto la responsabilità di scelte impopolari in campo economico, sapeva che avrebbe perso il consenso e le successive elezioni, se ne fece una ragione: «Io e i miei andremo a casa, ma abbiamo salvato il Paese e il tempo ci renderà giustizia»

Tsipras e Varoufakis sono le due facce delle strade diverse che si possono prendere dopo aver sognato insieme un mondo migliore. Avevano le stesse idee, quando si sono trovati davanti a una scelta da far tremare i polsi è emersa un'indole diversa. Non sappiamo come si comporteranno Carola Rachete e Patrick Zaki (semmai si candiderà), se entreranno nella stanza dei bottoni. Se resteranno movimento o preferiranno diventare istituzione.

Sappiamo però che, nel caso dovessero cedere all'omologazione, ci sarà sempre qualche ex compagno di strada pronto a chiamarli traditori, qualcun altro opportunisti. È comunque sempre lastricato di insidie il percorso di chi si è messo in testa l'idea meravigliosa di cambiare le cose.

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