L’addio di Zingaretti, espressione romana del partito, nasce anche dalle ambizioni degli amministratori locali. Il presidente dell’Emilia-Romagna ha un sistema di potere collaudato per tentare la scalata e coinvolgere Renzi
- L’addio di Zingaretti, espressione romana del partito, nasce anche dalle ambizioni degli amministratori locali. Il presidente dell’Emilia-Romagna ha un sistema di potere collaudato per tentare la scalata e coinvolgere Renzi.
- Stefano Bonaccini, a chi lo critica per la vicinanza e l’apertura a un ritorno di Renzi nel partito risponde secco: «Chi mi conosce sa la mia storia, mai avuto o stato in correnti» riferiscono fonti a lui vicine.
- Il futuro del partiti democratico dipenderà molto da quanto accadrà lungo la strada che taglia in due la regione da Rimini a Piacenza, simbolo di un modello politico, culturale, sociale, economico che ha garantito alla sinistra e al centro sinistra di governare nei territori e a Roma.
«Correva la fantasia verso la prateria, fra la via Emilia e il West». E di fantasia, come cantava Francesco Guccini in Piccola Città, ce ne vuole per decifrare il futuro del Partito democratico. Dipenderà molto da quanto accadrà lungo la strada che taglia in due la regione da Rimini a Piacenza. Non solo lingua d’asfalto, ma simbolo di un modello politico, culturale, sociale, economico che ha garantito alla sinistra e al centro sinistra, dai comunisti al partito democratico, di governare nei territori e a Roma.
Le dimissioni di Nicola Zingaretti, espressione romana del partito, nascono, in fondo, da ambizioni personali di amministratori locali attuali e passati: Stefano Bonaccini, il presidente della regione Emilia-Romagna, e Matteo Renzi, ex sindaco di Firenze, che può contare ancora su una corrente all’interno del Pd che vorrebbe un suo ritorno nella grande famiglia democratica.
Bonaccini deve molto a Pierluigi Bersani, l’ultimo segretario prima della nascita del renzismo. Bersani lo ha valorizzato, gli ha permesso di crescere e di affermarsi nel partito. Nei primi anni Duemila con il partito, all’epoca i Democratici di sinistra(Ds), si è inventato una scuola di formazione politica, “Pensareeuropeo”: «Due gli aspetti che ci fanno essere orgogliosi: il primo è sicuramente quello della composizione degli iscritti, poiché un terzo di questi non risultano iscritti al partito e non partecipano regolarmente alla vita politica, ma più semplicemente vogliono capire. La metà degli iscritti, poi, sono donne, e anche questo è un altro dato da non sottovalutare», diceva intervistato dalla Gazzetta di Modena, città che è il vero feudo del suo potere politico.
La campagna per Renzi
Qui è stato assessore comunale, prima ancora è stato segretario del Pds cittadino. Poi la grande cavalcata: segretario provinciale Pd, poi guida del partito regionale, presidente di regione. Infine l’attualità stretta: per i renziani è l’uomo giusto per guidare i democratici dopo Zingaretti, la persona adatta a ricucire lo strappo con Renzi e riportarlo, perché no, nei Dem, che ha lasciato per fondare Italia viva. Nel 2012 Bonaccini ha sostenuto Bersani alle primarie del centrosinistra per scegliere il candidato a presidente del consiglio. La mozione “Bene Comune” aveva sconfitto Renzi.
L’anno successivo, però, Renzi ha ottenuto la sua doppia rivincita: ha sconfitto Gianni Cuperlo, l’erede dell’area Bersani, alle primarie Pd per la segreteria; lo ha fatto grazie a un bersaniano come Bonaccini che gli ha aperto le porte dell’Emilia rossa.
Bonaccini non è stato soltanto un elettore ma ha coordinato la campagna elettorale, tutta interna al popolo del Pd, che ha portato il rottamatore toscano al vertice dei democratici. Le prove della sua intraprendenza per regalare a Renzi la segreteria sono agli atti dell’inchiesta della procura di Firenze sulla fondazione Open, la cassaforte dell’età d’oro del renzismo: Bonaccini aveva a disposizione una carta di credito della fondazione da usare per la campagna delle primarie in favore di Renzi. Ha aiutato, percependo rimborsi da Open, anche Andrea Rossi, ancora oggi fedelissimo del presidente. Rossi è deputato, prima sottosegretario in regione, alle ultime elezioni regionali, quelle contro la Lega e i fantasmi di Bibbiano, è stato il coordinatore della campagna elettorale: chi lo definisce “architetto” della vittoria, chi “consigliere”, Rossi è certamente parte della cerchia stretta del presidente Bonaccini. Cerchia sulla quale il presidente ha eretto il suo sistema di potere.
Tra gli altri su cui può contare il governatore Bonaccini, chissà se futuro segretario, c’è Paolo Calvano: assessore al Bilancio e segretario regionale del Pd. Molto ascoltato da Bonaccini. Così come lo è Andrea Bortolomasi, assessore alla Cultura del comune di Modena, un passato da capo segreteria dell’attuale presidente della regione. Sicuramente tra le figure più vicine a Bonaccini anche durante l’ultima campagna elettorale.
Ora che il governatore emiliano punta alla segreteria nazionale per Bortolomasi si presenta l’occasione della vita: correre per diventare primo cittadino di Modena. Con il benestare di Bonaccini ovviamente, che così potrebbe tagliare fuori dalla corsa i rivali di altre correnti interne al partito.
«La mia testa è concentrata a sconfiggere la pandemia e fare ripartire lavoro e economia», ripete Bonaccini a chi gli chiede se sarà il successore di Zingaretti. «Non vivo di gossip politico», ripete come un mantra, nel suo stile dell’uomo del fare e delle «chiacchiere stanno a zero». A chi lo critica per la vicinanza e l’apertura a un ritorno di Renzi nel partito risponde secco: «Chi mi conosce sa la mia storia, mai avuto o stato in correnti», le parole di Bonaccini riferite da fonti a lui vicine.
Il vero presidente
Del club fa parte sicuramente Davide Baruffi, modenese, anche lui erede della dinastia comunista, è stato segretario Ds, poi in parlamento, oggi sottosegretario alla presidenza Bonaccini. «Baruffi all’interno del partito è detto “il vero presidente”, da lui passano i dossier più delicati, media, dialoga», dice una fonte interna al Pd, «ultimamente lo è ancora di più perché il presidente è spesso fuori, tra interviste e pandemia, e Baruffi è lì che fa il lavoro vero».
Baruffi sta a Bonaccini, dunque, come Giorgetti a Salvini. Paragone azzeccato al tempo del governo Draghi, visto che da quando è nato, con i voti trasversali di Lega e Pd, Bonaccini ha trovato con il leader leghista un terreno di intesa sulla riapertura serale dei ristoranti e sul vaccino russo Sputnik da rendere subito disponibile anche in Italia.
La diarchia Bonaccini - Baruffi ha però provocato anche alcune frizioni nel Pd di governo regionale. A gennaio per il voto del bilancio c’è stata una rottura provocata da Baruffi, che ha ritirato una proposta sull’ecobonus, relatore Andrea Costa, voluta dai suoi colleghi. «È stata una vicenda fortemente divisiva perché il partito si era impegnato in commissione per farlo passare», spiega chi ha lavorato al dossier. Questo è solo un esempio, racconta un dirigente del Pd, «di come Bonaccini si sia affidato anima e corpo a Baruffi per gestire la regione».
Confindustria
Il progetto di legge sull’ecobonus poi rimasto fuori dal bilancio «era troppo restrittivo e non piaceva agli industriali», spiegano dal Pd. Industriali intesi come l’associazione degli Industriali dell’Emilia-Romagna. Tra i bonacciniani e l’associazione c’è sintonia e vedute comuni, oltreché un rapporto personale tra Bonaccini e il presidente di Confindustria regionale, Pietro Ferrari, di Modena come Bonaccini. Il presidente degli industriali ricopre il medesimo ruolo nella banca più importante del territorio, la Bper.
«Convergenza su tante cose», aveva dichiarato il governatore dopo un incontro alla vigilia delle regionali di gennaio 2020 con il presidente Ferrari. Bonaccini e Confindustria hanno fatto fronte comune per sbloccare le infrastrutture contro il governo Lega-Cinque stelle. Un «costruttorista più che ambientalista», riferiscono le malelingue che non vedono di buon occhio relazioni troppo strette con gli industriali e meno con la Legacoop, braccio economico e finanziario da sempre del Pci poi del Pds, poi Ds, infine Pd. Per questo motivo la vecchia guardia, fatta da figure di un certo peso che hanno ricoperto anche ruoli di governo in passato, non è entusiasta della linea industriale di Bonaccini.
Il settore “Infrastrutture” è il più scivoloso per il presidente. «L’ambito in cui è più in difficoltà», conferma una fonte Pd. Più opere pubbliche, chieste a gran voce anche quando la sua collega di partito De Micheli era al ministero delle Infrastrutture. Richiesta che ha creato anche un conflitto con i comitati ambientalisti che si oppongono sui territori.
Consenso
Per vincere contro Matteo Salvini alle ultime regionali di gennaio 2020 non è stato sufficiente parare i colpi della propaganda sovranista. Era necessario giocare all’attacco. E così è nata una squadra comunicazione che ha combattuto senza esclusione di colpi contro la propaganda leghista, che aveva puntato tutto sul partito di Bibbiano.
Dietro le quinte hanno lavorato alcuni spin doctor di primo piano: da Marco Agnoletti, già portavoce di Renzi, a Daniel Fishman della società di comunicazione Consenso. Fishman ha curato la comunicazione di altri politici, anche di centrodestra, come Raffaele Fitto per le regionali in Puglia, vinte però dallo sfidante di centrosinistra Michele Emiliano.
A gestire l’immagine del potere di Bonaccini c’è anche un’azienda di Modena: Tracce. Tra i clienti, come si può leggere sul sito della ditta, ha anche la regione Emilia–Romagna. La mente è Ruggiero Villani, ex dirigente Pci, impegnato fin dagli anni Novanta a ricostruire l’immagine del partito comunista che si avviava alla trasformazione definitiva.
«Il Pci ha rinunciato persino all’ultima cosa che un’azienda in crisi butterebbe via: il marchio di fabbrica», scriveva in un articolo del 1990 l’inviato di Repubblica dalla festa dell’Unità di Modena in occasione di un evento, che oggi chiameremmo workshop, sulla comunicazione e l’immagine politica: in platea sindaci, assessori, dirigenti, che ascoltavano i maggiori esperti del settore chiamati da Villani nella roccaforte del Pci. C’era molto scetticismo tra il pubblico, soprattutto quando uno degli esperti ha spiegato che «Bisogna imparare come si scrive una lettera, come si legge un discorso, come ci si fa intervistare in tivù; apprendere le arti del telemarketing, evitare i tranelli della democrazia pubblicitaria». Sono trascorsi vent’anni, nessun dubbio ormai. L’immagine conta più del porta a porta per convincere la gente a votare. La forma che conta più della sostanza.
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