- Da prima della campagna elettorale, Meloni ha lavorato per ridurre la quota ideologica del suo partito e allargare invece il suo livello di interlocuzione nel mondo dell’establishment e dei tecnici.
- Solo così, infatti, un governo di FdI può immaginare di guidare il paese in un momento di crisi geopolitica ed economica, rispondendo alle istanze del suo nuovo elettorato: imprenditori del nord, che poco hanno a che fare con la dimensione identitaria e chiedono risposte concrete.
- Gli alleati di Lega e Forza Italia, invece, vanno in direzione opposta: la perdita di elettori va di pari passo con la loro necessità di rafforzarsi sui temi identitari. Questa, infatti, è l’unica strada per rimanere riconoscibili e non venire diluiti in un governo con priorità e interpreti molto distanti da loro.
La leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, sta passando le sue giornate asserragliata alla Camera, alle prese con la composizione della lista dei ministri da portare al Quirinale.
L’operazione non è facile, perchè gli alleati Matteo Salvini e Silvio Berlusconi stanno provando a metterle più pressione possibile. Lega e Forza Italia, infatti, sono uniti nel chiedere con forza che la squadra sia composta principalmente da politici e reclamano per propri esponenti almeno uno dei dicasteri cosiddetti “pesanti”: Interni, Esteri, Giustizia, Difesa ed Economia.
Meloni, invece, starebbe lavorando a un’operazione molto diversa e lo dimostra la riservatezza con cui si muove: pochissime informazioni all’esterno e, di quelle poche, moltissime riguardano la rosa di tecnici in odore di ministero.
Il nuovo elettorato
Nonostante il rumore esterno, orchestrato in particolare dagli alleati, la leader di Fratelli d’Italia sta procedendo in modo coerente con la linea tenuta sia prima che durante la campagna elettorale. A partire dalla tre giorni di Milano dell’aprile scorso, infatti, l’operazione di Meloni è stata quella di accreditarsi come partito conservatore sì, ma permeabile e recettivo nei confronti dell’establishment. I segnali, infatti, sono partiti da lì: pochi politici sul palco se non la leader e abbandono dei temi identitari in favore di un dialogo con Confindustria e con i manager pubblici di Eni ed Enel.
Poi, anche nel corso della campagna elettorale, Meloni è stata ben attenta a farsi trovare preparata sia al forum Ambrosetti di Cernobbio e al meeting di Rimini di Comunione e liberazione.
Pochissimo spazio, invece, è stato dato alla vecchia guardia: i candidati – nessuno escluso – hanno saputo dove sarebbero stati candidati solo all’ultimo minuto, le uniche voci che si sono sentite in campagna elettorale sono state quelle dei tre tecnici Carlo Nordio, Marcello Pera e Giulio Tremonti, accanto a quella di Guido Crosetto, consigliere della leader che però ora sarebbe stato progressivamente messo da parte a causa di suoi possibili conflitti di interesse imprenditoriali.
Il risultato è stato quello sperato: Meloni ha sbancato al nord, in particolare in Lombardia e Veneto, dove ha doppiato la Lega per percentuale di voti ma soprattutto ha conquistato credito e credibilità rispetto al mondo imprenditoriale che a questo governo chiederà risposte immediate.
Questo nuovo elettorato conquistato – che Meloni ha incontrato nella sua prima uscita pubblica post elettorale, a Milano alla Coldiretti – è anche quello meno sensibile ai temi ideologici e alla necessità di scegliere ministri politici.
Per questo, a perdere terreno in FdI è la quota identitaria. Secondo un sondaggio Ipsos, infatti, il sostegno a Meloni è arrivato da operai (34 per cento) e lavoratori autonomi (30 per cento), seguiti dagli imprenditori (25 per cento) e un sondaggio Euromedia per Porta a Porta ha indicato le priorità per il nuovo governo: inflazione (48 per cento), crisi energetica (45 per cento) e lavoro (38 per cento) sono ai primi posti, surclassando quelle più identitarie come immigrazione (17 per cento) e sicurezza (10 per cento).
I temi identitari
«Gli esponenti della vecchia guardia stanno iniziando a capirlo: il governo nono verrà composto dai dirigenti del partito al 4 per cento», è la battuta di una fonte interna al gruppo dirigente. Tradotto: Meloni non ha intenzione di costruire un governo fatto degli storici esponenti di Fratelli d’Italia, che appagherebbero sì le antiche pulsioni del partito, ma che non hanno l’esperienza adatta a gestire l’autunno che si sta avvicinando.
I contatti con Mario Draghi sono frequenti per pianificare il passaggio di consegne, ma anche e soprattutto per individuare le persone adatte a non portare l’Italia a sbattere. Per questo, per l’Economia non è ancora tramontato il nome dell’economista e membro del Comitato esecutivo della Banca Centrale Europea, Fabio Panetta. Il diretto interessato ha più volte fatto arrivare il suo no, ma Meloni non dispera di poter trovare il modo di convincerlo.
Sugli altri nomi, Meloni è disposta a trattare ma con una certezza: è meglio un buon tecnico d’area rispetto a un politico fedele. La premier in pectore, infatti, sa che a lei ogni errore verrà fatto pagare doppio, sia a causa dell’etichetta post-fascista che in Europa ancora non è stata del tutto cancellata, che per il fatto di dover succedere ad uno dei primi ministri più ascoltati a livello internazionale.
Tranquillizzare sull’affidabilità del suo governo passa anche attraverso la pacificazione dello scontro nazionale, consolidando il dialogo parlamentare con la minoranza attraverso la concessione della guida della Camera.
Questa regola di cortesia istituzionale, interrotta con il primo governo Berlusconi nel 1994 e mai più ripristinata nel corso della Seconda repubblica, è la strada per stabilizzare il prossimo esecutivo e per metterlo al riparo da accuse ideologiche, rendendolo anche di maggiore appeal per i tecnici contattati e fino ad ora restii a dire sì.
Gli alleati
Ragionamento esattamente opposto, invece, è quello che guida le mosse di Salvini e Berlusconi. Soprattutto il leader leghista è in enorme difficoltà interna, con il suo elettorato storico che gli ha voltato le spalle nelle regioni di riferimento. Il Cavaliere, invece, è riuscito a frenare il crollo del suo partito ma la pressione esterna degli altri gruppi di centro è forte, anche a causa di una svantaggiosa ripartizione dei collegi uninominali che ha portato a Forza Italia molti meno eletti rispetto alla Lega a quasi pari percentuale di voti ottenuti.
Per entrambi gli alleati di Meloni, dunque, rafforzarsi sui temi identitari è l’unica strada per rimanere riconoscibili e non venire diluiti in un governo con priorità e interpreti molto distanti da loro.
La principale leva a loro disposizione è quella dei numeri: senza di loro un governo non potrebbe nascere. Meloni però sa che nè Berlusconi, all’ultimo giro di boa politico, nè Salvini, la cui segreteria è sempre più in bilico, possono assumersi la responsabilità di non far nascere il nuovo governo. Forte di questo, la leader di FdI sta andando avanti per la sua strada, in silenzio e tenendo a debita distanza tutti i questuanti, corteggiando tecnici e tessendo rapporti con l’establishment economica e di palazzo.
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