- Questo è un nuovo numero di Afriche, la newsletter decolonizzata di Domani che racconta l’Africa al plurale, a cura di Luca Attanasio e in arrivo ogni martedì pomeriggio. Per iscriverti clicca qui.
- Il 25 maggio si celebra l’Africa Day in memoria di uno storico 25 maggio del 1963 in cui ad Addis Abeba, i leader di 30 degli allora 32 stati africani indipendenti, firmarono una carta costitutiva che diede ufficialmente vita all’Organizzazione dell'Unità Africana (Oua).
- Ne parlo nel mio articolo Africa Day, brindiamo all’Africa in cui aggiungo un focus sul rapporto di Amref “Africa Mediata”, che mette ancora in luce quanto l’Africa sia sostanzialmente inesistente (o mal-esistente) nei nostri media. A seguire un pezzo sulla restituzione delle opera d’arte; la recensione di un libro molto interessante sulla Nigeria e le consuete news dal continente. Buona lettura
«Che questa convention di unità possa durare mille anni!». Con questo augurio dell’imperatore d’Etiopia Hailé Selassié si chiuse ad Addis Abeba una conferenza storica.
I leader di 30 degli allora 32 stati africani indipendenti, firmarono la carta costitutiva che diede ufficialmente vita all’Organizzazione dell’Unità africana (Oua). Era il 25 maggio del 1963. Da allora, quel giorno, è l’Africa day, una festa che ricorda ed esalta il processo di decolonizzazione continentale.
Nel frattempo l’Oua, nel 2002, è divenuta Unione africana (Ua) e i restanti stati – in tutto l’Ua ne comprende 55, tra i quali anche la Repubblica Araba Saharawi, riconosciuta dall’Unione ma non da gran parte dal resto del mondo – hanno preso a farne parte nel corso degli anni.
Africa impoverita
Dall’epoca della grande decolonizzazione, l’Africa ha fatto enormi cambiamenti e si presenta ora al mondo con un volto, anzi, tanti volti, che meritano nuovi approcci e attenzione. La retorica del continente povero e sottosviluppato è ormai una ripetizione stanca e misera di approfondimento.
Dire che l’Africa è povera è quanto di più sbagliato. Il “continente nero”, infatti, è infinitamente ricco di tutto. E se giace (ancora per poco) negli ultimi posti delle statistiche di benessere e sviluppo è perché “impoverito” per secoli.
Le stime più recenti ci dicono che accoglie al suo interno il 65 per cento delle riserve di materie prime globali (petrolio, oro, diamanti, rame, cobalto, ecc.). Più nello specifico, circa metà dell’oro del mondo e un terzo di tutti i minerali sono in Africa. Nel continente ci sono milioni di ettari di terreni coltivabili, escludendo le foreste, un potenziale enorme che attende di essere sfruttato (solo il 25 per cento è coltivato e il 5 per cento irrigato). La sua popolazione ha un’età media di meno di 20 anni: un babybooming che con sta innescando una crescita economica seconda solo – nel giro di qualche decennio – a quello del Sud-Est Asiatico.
Si dovrebbe poi parlare a lungo del patrimonio e dell’indotto artistico-culturale dell’Africa. Uno degli esempi più lampanti ci viene dall’industria cinematografica nigeriana. Nollywood già nel 2006 registrava una produzione superiore a Hollywood e seconda solo a Bollywood. Il box office lo scorso anno ha incassato 4,8 miliardi di dollari, un aumento del 128,57 per cento rispetto al 2020. Ad oggi, contribuisce al 2,3 per cento del Pil interno della Nigeria e sta creando un effetto domino in altri paesi del continente.
Naturalmente non si vuole qui fornire un’immagine irenica e aproblematica dell’Africa che resta il continente con il numero maggiore di paesi in cui si consumano conflitti (31), dittature (anche se in diminuzione), in cui un numero ancora alto di individui vive sotto la soglia di povertà, o dove le emergenze climatiche e umanitarie sono diffuse. Quello che si intende affermare qui è che l’Africa non è solo questo e che restare ancorati a questa vecchia narrativa figlia di un pensiero unico colonialista, è totalmente fuorviante.
Purtroppo, però, stando a quanto ci restituisce Amref Italia con la preziosa indagine l’“Africa mediata” svolta in collaborazione con Osservatorio di Pavia, in uscita puntualmente ogni anno in occasione dell’Africa Day, il nostro paese è ancora drammaticamente indietro in quanto a informazione sul continente.
“Africa mediata”
L’analisi della ricerca, svolta nel periodo 1 marzo 2021 – 28 febbraio 2022, si divide in tre aree. La prima riguarda le prime pagine dei principali quotidiani (Avvenire, Corriere della Sera, Il Fatto Quotidiano, Il Giornale, La Repubblica, La Stampa) e conferma un interesse marginale per l’Africa.
La media mensile di notizie è pari a 16, un numero ancora decisamente basso che rivela, inoltre, una tendenza sempre molto italocentrica: il 67,6 per cento di queste 16 notizie fanno parte della categoria che Amref chiama “Africa qui” e solo il 32,4 per cento da “Africa là” (quasi solo Libia, Egitto – per Zaki e Regeni – Etiopia e Repubblica Democratica del Congo – omicidio Attanasio – ).
Va ancora peggio nei principali telegiornali. Su più di 44mila notizie analizzate solo 1522 (3,4 per cento) hanno riguardato direttamente o indirettamente l’Africa. Il silenzio sull’Africa nei Tg è quasi assoluto e quando viene rotto, è spesso a causa di notizie di colore, curiosità che ancora riportano a un immaginario banalizzante, arcaico e folkloristico del continente.
La terza area indagata riguarda i programmi di informazione e infotainment e ha utilizzato un campione di 90 trasmissioni in onda sulle sette reti generaliste a diffusione nazionale. Su 61.320 ore trasmesse in un anno dalle sette reti monitorate, sono stati rilevati solo 967 riferimenti all’Africa, in media uno ogni 63 ore di programmazione.
La fotografia che l’Italia scatta sull’Africa, quindi, è piena zeppa di imperfezioni. La scarsissima presenza nei media, l’assenza quasi totale nei dibattiti, causano un pericoloso provincialismo, brodo culturale ideale in cui far proliferare ignoranza e razzismo da una parte, e incapacità di cogliere opportunità di relazioni dall’altra. Come ripete Amref «le diversità evidenti tra i paesi africani, in termini geografici, storici, culturali, linguistici, climatici, politici, sociali sono appiattite da un racconto sull’Africa che tramanda il mito - inesistente - dell’omogeneità africana».
L’Africa è un luogo remoto, dannato e senza prospettiva. Manca la visione di una normalità africana fatta di industrie ed economie in grande ascesa, di città moderne, di artisti, scrittori, di nuove classi politiche, movimenti femminili, ambientalisti, di attivisti Lgbtq. Come se l’Africa fosse un luogo sostanzialmente statico, cristallizzato in quell’immagine di continente depredato e senza speranza a cui l’Europa lo ha ridotto per secoli.
La restituzione di oggetti d’arte trafugati in epoca coloniale
La restituzione delle opere d’arte da parte dei governi europei alle ex colonie – una delle questioni culturali più discusse degli ultimi anni – è stato il tema del convegno annuale della Fondazione Max Weber, tenutosi dal 16 al 18 maggio al Goethe-Institut di Roma. Un folto gruppo degli oltre 30 relatori giunti da università e musei di tutto il mondo, proveniva dall’Africa.
Il convegno, dal titolo The Return of Looted Artefacts since 1945, metteva a confronto le restituzioni post-fasciste e quelle post-coloniali. Ma se da un lato il furto e le restituzioni post-fasciste si collocano in tempi, paesi e contesti precisi e più facilmente documentabili, la questione delle restituzioni post-coloniali, coinvolge molte più nazioni e si riferisce a contesti complessi.
Uno degli infiniti e più emblematici casi di furti coloniali è rappresentato dai bronzi dell’ ex regno del Benin (Nigeria meridionale), oltre cinquemila artefatti che ad oggi si trovano sparsi in circa 160 musei, la maggioranza al British Museum, o collezioni private, nel mondo. I bronzi del Benin sono un “bottino di guerra”, ottenuto dalle truppe coloniali britanniche che hanno invaso Benin City nel 1897. Durante l’occupazione e il saccheggio del palazzo reale, inoltre, sono state uccise molte persone.
I bronzi del Benin, così come i portali in legno del Camerun, esposti all’Humboldt Forum di Berlino, saccheggiati dalle truppe coloniali tedesche nel 1905 quando conquistarono il regno del Baham radendo al suolo e bruciando interi villaggi, portano con sé una storia tragica che i musei hanno il dovere di raccontare.
È questa anche la convinzione della storica dell’arte francese Bénédicte Savoy, che al convegno romano ha tenuto il key note speech d’apertura. La Savoy si batte da anni per la restituzione delle opere d’arte depredate in epoca coloniale, ed è lei la redattrice del famoso rapporto Sarr-Savoy l’elenco delle opere da restituire alle ex colonie richiesto dal presidente francese Macron. «All’Humboldt Forum di Berlino – ha detto la Savoy – hanno fatto bene i compiti, e sotto le opere hanno citato i nomi di quei militari che hanno invaso e depredato». La storia delle opere d’arte non può essere più disgiunta da quella del loro arrivo in Europa.
Ma c’è un’altra storia ancora nascosta da esporre nei musei, ed è quella della richiesta delle opere da parte degli stati africani. La studiosa ha mostrato documenti risalenti ai primi anni Settanta con le prime timide richieste di restituzione alle quali veniva sistematicamente risposto dai governi e dalle amministrazioni dei musei occidentali con messaggi che avevano più o meno lo stesso significato: «le opere sono più al sicuro nei nostri musei».
In Germania sorprende ad esempio un decalogo del 1979 in cui il ministero dei beni culturali dell’epoca dà istruzioni precise su come rispondere alle richieste di riconsegna: «non parlate di restituzione, usate la parola trasferimento; non cedete al ricatto del senso di colpa, le opere in Africa andrebbero perse».
Fortunatamente oggi il discorso della restituzione e della gestione africana delle opere sta diventando centrale. I paesi africani stanno muovendo richieste ufficiali, come quella della Nigeria alla Merkel nel 2019 riguardo ai bronzi nei musei tedeschi. Si stanno organizzando spazi espositivi per accogliere le opere di ritorno e il dibattito sembra finalmente spostarsi maggiormente verso l’Africa.
Winani Thebele, direttrice del Botswana National Museum, lo ha espresso molto chiaramente: «I governi africani devono fare la propria parte, investire tempo e risorse nelle richieste di restituzione, formare curatori, promuovere la ricerca etnografica e ricostruire una nuova narrativa sulle opere, liberarle dalla storia coloniale per potervi rileggere, finalmente, le storie e le identità di un continente che il pensiero occidentale ha dipinto per secoli come privo di storia e cultura».
The Passenger Nigeria
L’avventura africana di The Passenger, la collana di Iperborea che attraverso inchieste, reportage letterari e saggi narrativi mira a fornire il ritratto di un paese e dei suoi abitanti, parte dalla Nigeria, il gigante del continente. Un africano su sei è nigeriano e nel 2050, la Nigeria, sarà il terzo paese del mondo per popolazione. Con le sue oltre 250 etnie e 500 lingue è il paese delle contraddizioni, ci vivono l’uomo più ricco d’Africa e milioni di poverissimi, ha una delle industrie cinematografiche più grandi al mondo e rappresenta uno dei poli di avanzamento culturale e industriale del continente, ma deve ancora fare i conti con l’islamismo feroce e retrivo di Boko Haram, che ancora terrorizza ampie aree.
The Passenger Nigeria, che fonde giornalismo d’inchiesta, analisi sociologica, approfondimento geopolitico e segnalazioni culturali, si avvale di contributi di giornalisti, scrittori, attivisti, artisti, in gran parte nigeriani. Grazie anche a bellissime immagini e un’ottima grafica, trasporta il lettore dentro questo paese di superlativi, di estremi, che incarna molti dei problemi e delle promesse dell’Africa subsahariana, dalla dipendenza dalle risorse naturali al cambiamento climatico, dal dinamismo di una popolazione giovanissima ai successi di un’economia digitale in grande sviluppo.
Illustrato interamente dalla fotografa nigeriana Etinosa Yvonne, The Passenger Nigeria, è uno spiraglio che si apre su un mondo a noi poco conosciuto ma che è al centro di dinamiche economiche, politiche e sociali che daranno forma al mondo a venire.
News dal continente
MAURITANIA – Tomoya Obokata, relatore speciale delle Nazioni unite sulle forme contemporanee di schiavitù, al termine di una missione di dieci giorni in Mauritania, uno dei paesi più colpiti dal fenomeno, si è detto soddisfatto per i progressi compiuti nel rafforzamento del quadro giuridico e nella costruzione di una volontà politica di combattere la schiavitù. Allo stesso tempo, ha voluto ammonire che il quadro è tuttora problematico. «Sono stato incoraggiato dal riconoscimento da parte del presidente che la negazione della schiavitù non è l’approccio giusto. L’adozione della legge 2015-031 che criminalizza la schiavitù ha colmato molte lacune e sono apprezzabili gli sforzi fatti dal governo per sensibilizzare gli operatori del diritto, la polizia giudiziaria, le forze di sicurezza, la società civile e il pubblico in generale sulla legge», ha dichiarato. «Ma le persone ridotte in schiavitù, in particolare donne e bambini, soggette a violenze e abusi, anche sessuali, e trattate come proprietà, sono ancora molte».
MALI – Secondo quanto riporta il sito Africa ExPress, i rapitori dei tre italiani e del cittadino togolese, sequestrati in Mali lo scorso 19 maggio dalla casa presso cui abitano a Sizina, nella zona meridionale del Mali, si sono diretti con i loro ostaggi verso il Nord del paese, dove la presenza di formazioni jihadiste è massiccia. Rocco Antonio Langone, la moglie Maria Donata Caivano, Giovanni il figlio 43enne della coppia detto “Zanke” e un cittadino togolose, sono stati prelevati con la forza e caricati su una macchina poi scomparsa. Fonti della comunità diasporica africana riferiscono dell’intenzione di organizzare una manifestazione di sostegno per sabato 28 maggio
GAMBIA – Nella periferia della capitale Banjul, la Memory House, un museo dedicato alle vittime dell’ex leader dispotico Yahya Jammeh, diventa un simbolo di rinascita. «Svolgerà un ruolo determinante nell’educare le generazioni attorno a un capitolo oscuro della nostra storia», ha dichiarato ad Al Jazeera Sirra Ndow, rappresentante per il Gambia della rete africana contro uccisioni e sparizioni forzate. «È importante che le lezioni del processo di giustizia transitoria post-Jammeh siano integrate nel nostro sistema educativo per instillare una cultura contro l’impunità». Yahya Jammeh, salito al potere con un golpe nel 1994, nei due decenni successivi, ha fatto sparire o uccidere centinaia di giornalisti, immigrati, attivisti politici, studenti manifestanti. Nel dicembre del 2016, il mondo fu piacevolmente sorpreso dalla notizia della vittoria di Adama Barrow (riconfermato per un secondo mandato lo scorso dicembre), leader della coalizione democratica, contro uno dei dittatori più sanguinari della storia contemporanea. Da allora il paese, ridotto allo stremo da decenni di dittatura, sta compiendo un significativo percorso, tra mille problemi, verso la piena democrazia.
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