Justin Trudeau che la striglia per gli attacchi alle famiglie arcobaleno, gli Usa che le chiedono di strappare il cordone con Pechino: un G7 teso per Meloni
C’è chi la strattona di qua, chi di là. Certo è che non passa inosservata, la premier italiana Giorgia Meloni, al G7 di Hiroshima.
L’avanspettacolo della politica internazionale ci consegna a portata di riflettori soprattutto le occhiatacce con Justin Trudeau, e le polemiche sui diritti lgbt. Ma per la leader di Fratelli d’Italia – che ha fatto del legame con Washington la propria copertura politica – è ancor più problematica e urticante la spinta che viene dagli Usa perché l’Italia accantoni definitivamente il proprio coinvolgimento nella cinese via della seta.
Mentre è atteso l’arrivo di Volodymyr Zelensky per il weekend a Hiroshima, intanto proprio la Cina è il convitato di pietra.
Meloni show
Le più autorevoli testate statunitensi hanno presentato il parterre dei sette – Stati Uniti, Francia, Germania, Italia, Giappone, Canada, Regno Unito – come un gregge con un’unica pecora nera, e cioè il paese ospitante, il Giappone, diverso dagli altri in quanto l’unico a non riconoscere le unioni tra omosessuali. «Il Giappone è un’anomalia sui diritti lgbt», per dirla con un titolo recente del Washington Post.
Ma anche Giorgia Meloni è riuscita nondimeno a distinguersi. Ci aveva provato, palazzo Chigi, a camuffare la propaganda anti lgbt di Fratelli d’Italia sotto una dichiarazione «nel giorno internazionale contro l’omofobia: il governo ribadisce il suo impegno contro ogni forma di discriminazione».
Ma a quanto pare almeno il premier canadese, liberale per attitudine e per provenienza politica, ha la memoria meno corta. Ricorda che l’Europarlamento ha stigmatizzato il disconoscimento meloniano delle famiglie omogenitoriali, ad esempio.
E quindi ha esordito in un incontro a margine così: «Ovviamente il Canada è preoccupato per alcune posizioni che l’Italia sta assumento nei confronti dei diritti lgbt». E rivolgendosi ancora a Meloni, ha concluso: «Ma non vedo l’ora di parlarne con lei». Lei che, a quanto pare, lo ha fulminato con lo sguardo, e ha fatto filtrare di esserne stata «sorpresa».
Meloni si è trincerata dietro le scelte dei tribunali, ma il fatto che il premier canadese abbia segnalato il nodo anche nella sua nota ufficiale mostra ancora una volta che i grimaldelli ideologici di Fratelli d’Italia hanno l’effetto di marginalizzare il paese. Il caso si aggiunge ai recenti scontri con esponenti di governo francesi e spagnoli.
Meloni ha provato a rianimare il sentimento di vicinanza verso l’Italia condividendo con gli altri leader le immagini del disastro climatico in Emilia-Romagna.
E la Cina?
Ma il vero argomento di dibattito sulle scelte italiane, almeno nei faccia a faccia con gli Usa, è la via della seta.
Proprio questo venerdì, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen – considerata così vicina a Washington da esser bollata a Bruxelles come «la presidente americana» – ha concluso uno dei suoi interventi con queste parole: «E infine, dovremmo intensificare il nostro lavoro con gli altri per creare un'alternativa alla via della seta, ovvero la nostra Partnership su investimenti e infrastrutture globali».
In teoria, nulla di nuovo: è da tempo che von der Leyen cita l’iniziativa “Global Gateway” come l’alternativa di matrice europea alla cinese via della seta.
Ma è impossibile non cogliere un ammiccamento in direzione di Roma, visto che fra i sette è l’unico paese con un patto di questo tipo all’attivo con la Cina: si tratta del memorandum siglato nel 2019 all’epoca di Giuseppe Conte premier e Luigi Di Maio ministro.
I loro omologhi attuali, Antonio Tajani e soprattutto Giorgia Meloni, hanno già da giorni fatto intendere che un ripensamento fosse in corso. Del resto in campagna elettorale Meloni aveva fatto ciò che gli Usa si aspettavano – le sue parole erano già un fronte anticinese – e in vista di un suo viaggio a Washington la Casa Bianca le chiede azioni conseguenti.
Da Xi a Zelensky
Il Giappone, che ospita questo G7, è a sua volta proiettato sulla causa taiwanese e sulla promozione dell’idea di indissolubilità tra sicurezza europea e sicurezza dell’area indopacifica.
Mentre Washington, con Tokyo, prova a mettere i sette in assetto di scontro verso Pechino, intanto Xi Jinping si fa il suo vertice alternativo, quello iniziato giovedì con Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan.
E la Russia, in tutto questo? Non poteva mancare nella dichiarazione dei sette leader, tantopiù che nel weekend li raggiunge Zelensky: il testo congiunto è un profluvio di riferimenti alle sanzioni, nella pratica altre contromisure verso Mosca, dalle sue navi ai suoi diamanti.
Gli Stati Uniti hanno anche sciorinato una lista di nuove sanzioni individuali; e hanno pure liberato altri tre miliardi di dollari in sostegno militare a Kiev: le risorse erano state già previste, ma per un errore contabile erano state sottostimate di quella cifra, appunto.
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