Claudia Sheinbaum, del partito di sinistra Movimiento de Regeneración Nacional (Morena), ha stravinto le elezioni presidenziali che si sono tenute domenica 3 in Messico. Con una base elettorale di 98 milioni di aventi diritto al voto su una popolazione complessiva di 126 milioni e una affluenza superiore al 60 per cento, ha ottenuto oltre il 58 per cento delle preferenze, a fronte del 28 per cento della candidata della coalizione dei partiti di opposizione Xochitl Gálvez e del 10 per cento del terzo candidato, il centrista Jorge Álvarez Máynez.

La tornata elettorale ha quindi confermato ciò che i sondaggi rilevavano sin dall’inizio della campagna per il voto, vale a dire che Sheinbaum avrebbe vinto senza difficoltà, forte dell’ampio consenso del presidente uscente Andrés Manuel López Obrador (detto Amlo) e del partito al governo.

A caldo, si possono indicare almeno quattro spunti di riflessione. La vittoria di Sheinbaum è anche, secondo molti osservatori, un successo personale di Amlo. Dopo sei anni al potere e non potendo ricandidarsi, il presidente uscente ha investito tutto il suo capitale politico sull’ex governatrice di Città del Messico, convinto che guiderà la seconda economia dell’America Latina (e, con un Pil di oltre 1400 miliardi di dollari, la 14a a livello mondiale) in continuità rispetto alla sua agenda di governo.

Del resto, il bilancio della sua amministrazione è positivo, come indicano tutti i dati macroeconomici, il basso tasso di disoccupazione (del 2,7 per cento a dicembre dello scorso anno) sebbene in un contesto di alta incidenza del lavoro informale, e, in particolare, la riduzione della povertà e l’aumento del salario minimo grazie a decise misure di politica sociale.

Sheinbaum ha saputo capitalizzare al meglio questi risultati, riuscendo finanche a far meglio del presidente uscente, che nel 2018 aveva ottenuto il 53 per cento dei consensi. Non solo. Prima di domenica incerti sembravano gli esiti dell’elezione a Città del Messico e per il rinnovo di deputati e senatori. Ebbene, Morena ha sbaragliato la concorrenza, sia nella grande capitale che al Congresso.

Cambia il panorama

Il secondo elemento di riflessione non può, quindi, che essere il successo della sinistra in Messico. In un paese che sino alla fine del Novecento era sempre stato guidato, a livello federale e in gran parte di quello locale, dal partito erede della rivoluzione di inizio secolo (Partido Revolucionario Institucional, Pri) e, poi, in alternanza con il conservatore Partido Acción Nacional, i risultati di domenica dimostrano che il successo di Morena nel 2018 non fu congiunturale o il semplice frutto di una sorta di rigetto dell’elettorato messicano nei confronti dei tre partiti storici, se a quelli menzionati in precedenza aggiungiamo il Partido de la Revolución Democrátrica (Prd), formazioni che insieme hanno sostenuto la sconfitta Gálvez.

È possibile sostenere, quindi, che il percorso iniziato sei anni fa ha finito per modificare il panorama politico nazionale, inaugurando una stagione di progressismo in Messico che ha confermato di non essere effimera. In sintesi, Morena deve essere considerata una forza credibile e affidabile, che i messicani ritengono pienamente in grado di affrontare le tante criticità tuttora presenti e di guidare un paese membro dell’Ocse e del G20.

In terzo luogo, va sottolineato il fatto che il partito della neoeletta presidenta potrebbe essere in grado di incidere anche sugli equilibri regionali, introducendo nuove variabili negli assetti subcontinentali, promuovendo l’ingresso di nuovi potenziali temi in agenda. In un’area in cui si registrano nuovamente preoccupanti derive autoritarie, in cui si assiste alle fughe in avanti dell’estrema destra ultraliberista, come in Argentina con Milei, o dove, ancora, il ritorno prepotente sulla scena di vecchi leader, come Lula in Brasile, sembra essere l’unico antidoto nei confronti della retorica “antipolitica”, sovranista, conservatrice e razzista imperante un po’ ovunque, il Messico di Morena e di Sheinbaum o la Colombia di Gustavo Petro, pur tenendo conto delle specificità nazionali, potrebbero rappresentare esempi replicabili altrove.

Magari anche in Cile, dove si voterà per le presidenziali l’anno prossimo e dove l’estrema destra di José Antonio Kast ha ottime chance di successo. Governi che, del resto, saranno in ogni caso chiamati a contrastare, sul piano delle relazioni interamericane, la sicura onda d’urto che originerebbe dalla vittoria di Trump negli Stati Uniti.

Clima machista

L’ultima, sebbene non per importanza, considerazione riguarda il significato della vittoria di Sheinbaum in quanto donna. Dopo il primo presidente di sinistra, il Messico può vantare adesso anche la prima donna presidente. Dopo Cristina Fernández de Kirchner in Argentina, Dilma Rousseff in Brasile e Michelle Bachelet in Cile, che hanno governato i tre paesi del Cono sud in questo primo scorcio di Ventunesimo secolo, adesso tocca a lei.

Dovrà farlo in una realtà in cui la politica è tradizionalmente appannaggio degli uomini, in un paese profondamente machista e tristemente ai primi posti a livello mondiale per violenza sulle donne e femminicidi. Nel suo romanzo L’invincibile estate di Liliana, con il quale ha vinto il Pulitzer raccontando la storia del femminicidio di sua sorella, la scrittrice Cristina Rivera Garza, per respingere l’urticante e offensivo stupore dei funzionari statali dinanzi alla volontà di riaprire un caso vecchio di trent’anni, si chiedeva: “Chi ha il diritto di decidere quanto tempo è molto tempo e quanto è poco?”.

Sheinbaum saprà anche dare delle risposte alle numerose donne messicane che ancora attendono giustizia?

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