L’intesa firmata il 29 febbraio 2019 in realtà era costruita attorno agli interessi elettorali di Donald Trump. E prometteva la fine della guerra in Afghanistan, la più lunga nella storia degli Stati Uniti, senza però vantare una vittoria
- Il testo ripete per sedici volte, come un mantra scaramantico, che l’Emirato islamico dell’Afghanistan di cui si parla non viene riconosciuto dagli Stati Uniti.
- Si è visto subito il contraccolpo irritato del presidente Ashraf Ghani a Kabul per questo sfregio che ha l’odore di un tradimento. Secondo l’impegno di Doha i talebani dovevano ottenere in dieci giorni la liberazione di cinquemila loro prigionieri e restituire in cambio mille soldati regolari e poliziotti.
- La trattativa di Doha non è stata un progetto esclusivo di Trump: già a fine maggio del 2003, quando ancora Osama Bin Laden era il latitante più ricercato del pianeta, e i talebani considerati i suoi maggiori protettori, i rappresentanti del presidente Bush avevano avviato i primi contatti.
La sabbia della clessidra che doveva misurare la sua efficacia dell’accordo di Doha tra americani e talebani, si è già esaurita da tempo. C’è un motto che piace sempre agli studenti islamici: voi avete l’orologio, noi abbiamo il tempo. Quella intesa firmata il 29 febbraio 2019 in realtà era costruita attorno agli interessi elettorali di Donald Trump. E prometteva la fine della guerra in Afghanistan, la più lunga nella storia degli Stati Uniti, senza però vantare una vittoria. Ma riportare a casa i soldati, mettere fine al rituale delle bare dentro la bandiera a stelle e strisce doveva aumentare il consenso attorno al presidente. E dargli il pretesto per messaggi patriottici orgogliosi dal suo implacabile cellulare.
Il presidente Joe Biden nei suoi primi decreti non ha fatto riferimenti al dossier afgano. Né al negoziatore Zalmay Khalilzad. Sempre solerte con i piani di Washington, anche a Doha, ma spesso classificato fra i traditori dai suoi compatrioti. Rimuovere Khalilzad sarà un primo segnale positivo.
I contenuti
Lo “storico” accordo, come hanno dichiarato in apparente concordia americani e talebani, si riduce a quattro paginette che sembrano scritte dal surrealismo di Eugène Ionesco e non da professionisti della diplomazia. Il testo ripete per sedici volte, come un mantra scaramantico, che l’Emirato islamico dell’Afghanistan di cui si parla non viene riconosciuto dagli Stati Uniti. Ribadisce invece che al suo posto si usa la sbrigativa espressione talebani, quasi una semplice entità etnica sguarnita di rilievo politico. È come ammettere che la superpotenza straniera dialoga con una masnada di briganti. Inoltre si accenna a due documenti segreti annessi, di cui fino ad oggi non sono trapelati i contenuti. Potrebbero riguardare alcune basi aeree pregiate come Shindand e Bagram.
La segretezza potrebbe includere anche Guantanamo, simbolo detestato che ancora trattiene talebani senza accuse e senza processo da un ventennio. Ma la grande falla dell’accordo è l’assenza del governo afgano, lasciato fuori dalla trattativa, nonostante sia formalmente sostenuto dagli occidentali. Una contesa con tre protagonisti ne coinvolge solo due.
Si è visto subito il contraccolpo irritato del presidente Ashraf Ghani a Kabul per questo sfregio che ha l’odore di un tradimento. Secondo l’impegno di Doha i talebani dovevano ottenere in dieci giorni la liberazione di cinquemila loro prigionieri e restituire in cambio mille soldati regolari e poliziotti. Lo scambio invece si è dilungato per sei mesi. E mentre le discussioni ondeggiavano tra quesiti teologici, difesa dei diritti umani e sottili scaramucce gli eredi del mullah Omar hanno intensificato i loro attentati fino al primato di oltre quattrocento attacchi in una sola settimana, la più sanguinosa degli ultimi venti anni.
Contemporaneamente hanno inserito nella lista dei loro combattenti circa quattrocento prigionieri fasulli. Talebani inventati sulla carta ma autentici criminali nella realtà, coinvolti in traffico di droga, contrabbando di armi, riciclaggio, attività mafiose, stupri, delitti gravissimi. Inseriti con pagamento in dollari.
Per reazione alla lista nera improvvisata il presidente Ashraf Ghani, già irritato per la liberazione dei cinquemila ospitati nelle sue carceri imposta dagli americani, ha voluto subito ricorrere alla Loya Jirga. Questa grande assemblea, con i suoi oltre tremila notabili di ogni provenienza etnica, politica, religiosa, economica, forma lo strumento più tradizionale e allo stesso tempo più autorevole del paese per misurare il consenso politico. Supera il livello del parlamento e di altre istituzioni democratiche importate dagli occidentali. Solo dopo questo rituale, dove spesso un voto a favore o contrario è annunciato da una alzata di sopracciglio, il governo ha sdoganato alla fine anche i quattrocento della lista nera trascinando di proposito per mesi la liberazione fissata nell’accordo in soli dieci giorni.
La nuova lista
Varie fonti hanno confermato questo elenco di guerriglieri-prigionieri inesistenti, costruita dietro pagamento. Ashraf Ghani stesso ha confermato che tra loro ci sono autentici boss della malavita. Secondo un alto diplomatico afgano in Europa, ai vertici di un importante clan con mezzo milione di seguaci nella zona di Jalalabad, bene al corrente di molte vicende in patria, oggi responsabile di una missione delicata tra i suoi compatrioti profughi, questi candidati alla liberazione senza essere mai transitati dal campo di battaglia hanno versato milioni di dollari. Dopo una investigazione faticosa fornisce una lista dettagliata di numeri: 156 condannati a morte, 34 sequestratori, 51 contrabbandieri, e avanti con altre categorie dalla reputazione inquietante.
Il generale Nur Ul Haq Olumi, militare di carriera, inviato durante la monarchia alla accademia militare in Unione sovietica e poi negli Stati Uniti per sostenere la faticosa neutralità del re, conferma il mercato milionario.
Secondo le sue informazioni già anni fa per liberare dalla prigione di Kabul un grande trafficante di droga i familiari avevano pagato 14 milioni di dollari.
Nonostante la guerra i soldi in questo paese hanno sempre viaggiato agevolmente e in abbondanza. Negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso i pacchi di moneta locale logora e sudicia, legati con spago, compatti come piccoli blocchi di argilla.
Sempre Olumi nel 2002 era stato chiamato dal presidente Hamid Karzai per conoscere la situazione reale dell’esercito afgano, dopo neanche un anno dalla caduta del regime talebano. In cinquanta giorni preparò un libro nero con il bordo rosso in cui erano scritti numeri e nomi, senza una cancellatura. Sulla carta risultavano esistere 3.600 generali, 10 corpi d’armata, e 44 divisioni. Ma i guerriglieri che erano entrati a Kabul con il consenso del viceministro dell’Interno talebano, senza affrontare una vera battaglia, erano in totale appena diecimila uomini. Karzai disponeva di una gerarchia militare unica al mondo: un generale ogni tre soldati.
Quella alluvione di alti gradi era stata costruita con fogli matricolari e altri attestati fasulli, favoriti dal caos amministrativo durante gli anni del mullah Omar. La tariffa standard per timbri e pezzi di carta utili alla carriera oscillava tra mille e duemila dollari.
La stessa filosofia, dilatata, e con risorse finanziarie ben più imponenti, si vede anche oggi, con i quattrocento delinquenti comuni trasformati dai biglietti verdi in prigionieri di guerra.
La trattativa di Doha non è stata un progetto esclusivo di Trump, come invece è avvenuto con la Corea del nord dove comunque il fallimento è stato altrettanto secco e più spettacolare. Già a fine maggio del 2003, quando ancora Osama Bin Laden era il latitante più ricercato del pianeta, e i talebani considerati i suoi maggiori protettori, i rappresentanti del presidente Bush avevano avviato i primi contatti con gli studenti islamici muovendosi tra Islamabad, Quetta e Dubai. Cominciava una operazione diplomatica sotterranea tra rappresentanti della democrazia e sostenitori del terrorismo, una specie di negoziato blasfemo tra angeli e diavoli.
Gli americani ponevano allora quattro condizioni: il leader dei talebani doveva rinunciare al suo ruolo di guida e mettersi da parte, i talebani dovevano espellere tutti i combattenti stranieri che avevano accolto per la guerra santa, i prigionieri americani dovevano essere liberati e i resti dei morti restituiti, gli attacchi contro i militari stranieri in Afghanistan dovevano finire. In cambio i talebani avrebbero avuto metà degli incarichi nel governo a Kabul.
Gli studenti islamici rispondevano punto su punto: il mullah Omar non si tocca, l’espulsione dei fratelli stranieri è una questione interna nostra, non abbiamo prigionieri americani ma possiamo indicare dove sono sepolti i morti, fateci sapere la data esatta del vostro ritiro e noi sospendiamo subito gli attacchi.
Un negoziato molto più preciso e chiaro di quello firmato in Qatar. Non era ancora emersa l’occasione di confondere criminali ricchissimi con umili prigionieri di guerra.
Oggi la grande strada da Herat a Kabul, vero asse portante di tutta la vita afgana, è in mano ai talebani che staccano regolare biglietto di transito.
Il pedaggio frutta circa duecentomila dollari al giorno. Proprio con il pretesto di mettere ordine tra i banditi e il caos gli studenti islamici armati erano comparsi lungo lo stesso tragitto venticinque anni fa.
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