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La storia di Donald Trump ci ha insegnato che predire la sua fine è un esercizio imprudente. La differenza, questa volta, è nel deserto che si è creato intorno a lui.
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L’impero mediatico di Murdoch lo ha abbandonato, Ivanka e Jared si sono sfilati, gli irriducibili lealisti lo sostengono a mezza voce o apertamente sostengono altri candidati, innanzitutto Ron DeSantis.
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L’annuncio della sua ricandidatura da Mar-a-Lago si è trasformato in una cerimonia funebre, ma la scena di una fine che questa volta appare inevitabile non coincide con la fine del trumpismo.
La storia di Donald Trump ci ha insegnato che predire la sua fine è un esercizio imprudente.
L’ex presidente ha resisto a due impeachment, si è scrollato di dosso una moltitudine di scandali incrociati e ha sbaragliato avversari che sembravano attrezzati per disarcionarlo. Soprattutto, è sempre riuscito a sopravvivere al suo nemico peggiore, sé stesso.
La differenza, questa volta, è nel deserto che si è creato intorno a lui. Le elezioni di midterm – deludenti per i repubblicani, devastanti per i candidati trumpiani e i negazionisti dei risultati elettorali – ha trasformato l’annuncio del suo rilancio per le presidenziali del 2024 in una cerimonia funebre.
Fox News, fedelissima nel trasmettere integralmente tutte le liturgie del trumpismo, ha tagliato il suo annuncio a Mar-a-Lago e anche gli altri megafoni dell’impero di Murdoch si sono rivolti altrove.
Per il Wall Street Journal è ora che Trump ceda il passo a candidati più giovani, il New York Post sfotte il «pensionato golfista» che ha annunciato la sua candidatura e fa il tifo per il governatore della Florida, Ron DeSantis, che tra i conservatori è il vero vincitore di questa tornata.
Gli irriducibili lealisti sono scomparsi o in severo imbarazzo. Sean Hannity, l’ultimo dei suoi pretoriani televisivi, accoglie con un benvenuto a mezza voce la sua nuova corsa, Ivanka e Jared Kushner si sfilano da ogni possibile futuro in politica, diversi invitati nella tenuta trumpiana hanno perfino tentato di lasciare la sala prima della fine del discorso, come fanno certi tifosi quando la partita è chiaramente persa, ma sono stati trattenuti con garbata fermezza dagli uomini della sicurezza.
La scena di una fine che questa volta appare inevitabile non coincide però con la fine del trumpismo. Tutto sommato, Trump ha compiuto con successo la sua missione storica: ha rottamato il vecchio partito liberista e internazionalista di Reagan e Bush, rimpiazzandolo con confuse forme di brutale nazionalismo protezionista e isolazionista in sintonia con il risentimento dell’“uomo dimenticato” che domina questi tempi.
Joe Biden ha detto che il mandato di Trump è stato «un’aberrazione», ma la definizione non tiene conto del fatto che l’ex presidente ha cambiato il codice genetico del partito e il frontman che verrà darà un nuovo volto ai repubblicani ma suonerà sullo stesso spartito politico.
In questo senso, la presidenza di Trump è stata un evento trasformativo, non un interregno. DeSantis, Mike Pompeo e Glenn Youngkin, per citare tre fra i più accreditati per ottenere la candidatura, sanno che Trump può essere battuto soltanto con le armi del trumpismo.
Si tratterà giusto di sostituire la delirante irrazionalità narcisistica ed eversiva della sua personalità, che è venuta a noia anche agli elettori più convinti, con una proposta politica vagamente intelligibile. A conti fatti, Trump ha vinto.
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