- L’integrazione economica non si è verificata e il commercio e il flusso di investimenti sono limitati. Le aspettative di sviluppo e di trasformazione politica del vicinato sud sono state disattese e il Mediterraneo resta oggi un’area con grandi criticità.
- L’Europa è apparsa incapace di risposte efficaci. Colta di sorpresa dalle Primavere arabe, gli interventi a sostegno delle domande di democrazia e cambiamento furono timidi e insufficienti.
- Dopo il 2015, la crescente concentrazione sulle questioni di sicurezza è andata tuttavia a scapito della promozione della democrazia, dei diritti umani e della buona governance.
Nel novembre del 1995 si firmava lo storico partenariato euromediterraneo, o processo di Barcellona, tra l’Unione Europea e i 12 paesi della sponda sud del Mediterraneo. Forte del suo soft power, l’Ue promuoveva una visione della pace e della stabilità nell’area fondata sulla sicurezza e le prosperità condivise. L’integrazione biregionale, accompagnata dalla cooperazione politica, economica e culturale, avrebbe dovuto spingere i paesi del Medio Oriente e Nord Africa (Mena) a intraprendere un processo di riforme (politiche e economiche), favorendo in tal modo il rafforzamento della democrazia, dello stato di diritto e dei diritti umani nell’area.
Negli anni successivi l’Ue concluse Accordi di Associazione con la quasi totalità dei partner. Iniziarono inoltre le negoziazioni per la zona di libero scambio del Mediterraneo, da raggiungere entro il 2010. L’Ue liberalizzò il commercio dei beni e creò il cumulo di origine diagonale paneuromediterraneo per favorire l’accesso al mercato unico europeo. L’Unione sostenne inoltre diversi sforzi d’integrazione regionale tra i paesi della regione.
Il processo di Barcellona perse però rapidamente la spinta innovatrice a causa dei veti incrociati e delle molteplici divisioni presenti nel mondo arabo e del perdurare del conflitto arabo-israeliano. A più riprese l’Ue cercò di rilanciare il partenariato: nel 2004 con la Politica di vicinato (Pev), tesa ad approfondire la dimensione bilaterale delle relazioni definendo meglio gli incentivi e le condizionalità per le riforme e creando un quadro specifico per la progressiva approssimazione dei singoli partner all’Ue. E poi di nuovo nel 2008, con l’Unione per il Mediterraneo, che privilegiava una progettualità congiunta più strutturata per rispondere alle grandi sfide dell’area; e nel 2015, con la revisione della Pev.
I problemi
Tuttavia, dopo 25 anni, il bilancio di tali politiche è deludente. L’integrazione economica non si è verificata e il commercio e il flusso di investimenti sono limitati. Le aspettative di sviluppo e di trasformazione politica del vicinato sud sono state disattese e il Mediterraneo resta oggi un’area con grandi criticità. L’area Mena si trova da ormai 10 anni in una situazione di instabilità endemica, con crescenti fragilità socio-economiche.
Spesso le politiche europee sono state vissute dai partner come un’ingerenza negli affari interni o come un mezzo per promuovere gli interessi e i valori europei, mentre la relativa esiguità dei fondi messi a disposizione dall’Ue è stata una fonte di critica permanente. Di converso in Europa si è imposta una percezione della regione come fonte di minacce e si sono accentuati gli atteggiamenti di chiusura e le politiche di contenimento. Tutto ciò si è in definitiva tradotto in un declino delle relazioni tra le due sponde del Mediterraneo.
Oggi la regione Mena è attraversata da quattro importanti cambiamenti trasformativi. Il primo è quello politico. Le Primavere arabe del 2011 espressero una volontà di rottura nei confronti dell’autoritarismo politico, della corruzione sistemica, dell’esclusione politica e sociale e della mancanza di prospettive economiche di cui soffriva la gran maggioranza delle popolazioni nell’area Mena. Come sappiamo, l’onda rivoluzionaria non produsse i risultati sperati, vittima della scarsa capacità politica e organizzativa dei movimenti e delle reazioni repressive e cooptative dei regimi.
Dieci anni dopo la crisi politica continua. Dal 2019 una nuova ondata di proteste ha travolto il Sudan, l’Algeria, l’Iraq e il Libano. I movimenti popolari hanno adottato nuove tattiche di contestazione e più radicali domande di cambiamento politico e giustizia sociale. Anche in Tunisia, l’unico caso in cui la rivoluzione del 2011 ha dato vita a una transizione democratica, gli irrisolti problemi socioeconomici hanno spinto la popolazione a riprendere la via della protesta. La difficoltà a trovare una via democratica al cambiamento sembra bloccare la regione in una spirale di contestazioni e spinte autoritarie.
La seconda area di trasformazione concerne lo Stato. Nella regione le autorità hanno conosciuto difficoltà nel mantenere il monopolio della violenza o il controllo sulle zone remote e marginali. La crisi fiscale rende insostenibili le tradizionali politiche di sussidio e complica la fornitura dei servizi essenziali come l’istruzione e la salute. La struttura clientelare delle economie impedisce politiche pubbliche efficaci per rispondere alle sfide socioeconomiche, come ad esempio l’endemica disoccupazione giovanile. Infine, i macro trend che affliggono l’area Mena – la crescita demografica, gli effetti dei cambiamenti climatici, la scarsità di acqua, il degrado ambientale – amplificano le fragilità degli Stati.
Nei paesi in guerra, poi, si assiste al fallimento dello Stato. In Libia, in Iraq, in Yemen la capacità d’azione dello Stato è messa in discussione da gruppi armati che competono per appropriarsi delle sue risorse e si sostituiscono ad esso nel governo dei territori. È il caso dello Stato islamico (Isis), che fondò un’entità territoriale, il cosiddetto califfato, su ampie regioni della Siria e dell’Iraq. I conflitti generano inoltre economie di guerra. Gruppi armati e reti criminali dominano il commercio transfrontaliero di armi, di droga, di carburanti e il traffico di esseri umani creando connessioni fra economia formale/informale e criminalità nelle zone di frontiera e accentuando la marginalizzazione di tali aree, già vittime del sottosviluppo.
La terza grande area di trasformazione è quella geopolitica. Turchia, Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Israele si confrontano oggi in una competizione per l’influenza nell’area Mena. Essi si scontrano per procura e direttamente nei conflitti regionali, stabilendo così inestricabili collegamenti fra i differenti teatri e aumentando i rischi di escalation. La fluidità dei contesti si traduce in un quadro multipolare, fondato su alleanze di convenienza e una conrapposizione fra due assi composti da Arabia Saudita, EAU ed Egitto da una parte e Qatar e Turchia e dall’altra. L’influenza di quest’ultimo paese nella regione, peraltro crescente, è il risultato delle politiche neo-ottomane di Ankara. Questo processo è inoltre complicato dall’internazionalizzazione dei conflitti.
La quarta area di trasformazione è legata al terrorismo jihadista transnazionale. Presente nelle dinamiche regionali da più di vent’anni, la minaccia jihadista è divenuta oggi un elemento centrale per la sicurezza della regione. Anche se l’Isis è stato sconfitto militarmente, tale minaccia resta importante e potrebbe riemergere con forza, con evidenti ripercussioni in Europa.
A fronte di questi cambiamenti, l’Europa è apparsa incapace di risposte efficaci. Colta di sorpresa dalle Primavere arabe, gli interventi a sostegno delle domande di democrazia e cambiamento furono timidi e insufficienti, come nel caso del more for more, la risposta della Politica di vicinato che introduceva incentivi in termini di aiuti e di una prospettiva di relazione privilegiata. Se da un lato l’Ue accentuò l’appoggio politico ai movimenti e il sostegno alla società civile nei paesi coinvolti nelle rivolte, dall’altro fu restia ad assumere un ruolo di mediatore attivo davanti alle derive violente delle rivoluzioni.
L’Europa ha subito l’impatto dell’instabilità nella regione Mena. A seguito degli attentati terroristici dell’Isis nel continente, il contrasto alla minaccia jihadista è divenuto un elemento chiave delle politiche euromediterranee.
La crisi dei migranti
La crisi migratoria e dei rifugiati, che nel 2015 ha visto oltre un milione di persone raggiungere il territorio Ue, ha dato nuova priorità alle politiche di contenimento dell’immigrazione. Davanti alle negative ricadute politiche di questo fenomeno in Europa, l’Ue ha accresciuto l’impegno finanziario e politico nel tentativo, soprattutto, di esternalizzare il controllo migratorio. Importanti sono stati in tal senso gli accordi con Turchia e Libia, oggetto peraltro di critiche per i problemi che hanno comportato in termini di rispetto dei diritti umani dei migranti.
La crescente concentrazione sulle questioni di sicurezza è andata tuttavia a scapito della promozione della democrazia, dei diritti umani e della buona governance. La nuova Pev del 2015, introducendo una maggiore differenziazione nelle relazioni con i partner, ha anche di fatto rinunciato alle ambizioni trasformative delle politiche precedenti.
Davanti alle complessità in atto nell’area Mena, l’Ue si pone oggi due obiettivi prioritari, ma non privi di ambiguità: rafforzare la resilienza nei paesi partner e riportare stabilità nella regione.
Nella sua strategia globale, l’Ue definisce “resilienza” la capacità di affrontare e superare le crisi. Ma se ad essere rafforzata è prevalentemente la resilienza dei governi e degli Stati e non quella degli attori sociali più deboli – i giovani, le comunità locali, le regioni periferiche, ecc. – si corre il rischio di trascurare le cause strutturali dell’instabilità. Nello stesso modo, l’efficacia delle politiche di stabilizzazione è incerta. L’approccio europeo è frammentario e privilegia gli interventi a corto termine.
Questo testo è un’anticipazione dell’Atlante geopolitico del Mediterraneo 2022, edito da Bordeaux Edizioni in uscita il 15 febbraio
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