Per Tel Aviv gli ayatollah rappresentano l’unica, reale, minaccia strategica per la propria esistenza. E insieme agli alleati Netanyahu studia le strade migliori per rovesciare per sempre il potere di Khamenei
In una sorta di tragico gioco dell’oca in versione bellica, un anno dopo l’attacco di Hamas a Israele la scena pare tornare alla casella di partenza. Come già alla vigilia del 7 ottobre, i veri contendenti sono Israele e Iran. Demolita militarmente Hamas a Gaza, il primo torna a volgere lo sguardo a nord, al confronto con il Partito di Dio. E, soprattutto, a quello con il suo ispiratore e massimo alleato: l’Iran.
Sabotare il regime iraniano
Per Israele, il regime iraniano è la sola, vera, minaccia strategica per la propria esistenza. L’antica Persia, però, è troppo lontana, troppo grande e popolata, perfino troppo armata, per essere invasa: la sola via per abbatterne il regime è il precipitare della crisi interna. Esito che potrebbe essere innescato da un’azione di forza così pervasiva da incidere, oltre che sull’apparato militare e sulle infrastrutture, sulla vita quotidiana.
Al punto da indurre la popolazione iraniana, anche con l’assistenza esterna, a insorgere e mettere fine al potere di turbanti ed elmetti. Rovesciamento non certo indolore: i Pasdaran non sono l’esercito dello shah, ormai logorato e incapace di controllare le manifestazioni di massa che, dopo sanguinosi quanto inutili massacri dell’autunno 1978 e l’inizio del 1979, consegna i fucili forniti dagli americani ai manifestanti. I Guardiani della rivoluzione sono di un’altra pasta: milizia ideologica divenuto corpo militare sempre più forte e armato, non si lascerà facilmente spingere fuori dal campo.
Eppure la grande tentazione c’è, nel governo della doppia destra estrema, nazionalista e nazionalreligiosa, israeliana. In Medio Oriente e Oltre Atlantico, le condizioni sembrano ottimali per infliggere un colpo devastante al paese guida del riesumato “Asse del Male”, figura classica della teologia politica americana declinata, non a caso, in chiave iranoislamista.
Con una vittoria su Hezbollah, peraltro non semplice militarmente – il Partito di Dio può perdere una guerra aperta, ma difficilmente una guerriglia su un terreno né sopra né sotto paragonabile a Gaza – Israele metterebbe fuori gioco, dopo Hamas, il principale attore della guerra dei proxies. Gli Houthi possono tentare di bloccare il Golfo e lanciare missili, ma per numero, armamento, logistica, isolamento geografico, non costituiscono una minaccia rilevante come la milizia sciita libanese.
La crisi della strategia incentrata sulla guerra dei proxies è un serio problema per l’Iran. Questo tipo di conflitto, oltre a consentire di tenere alta la bandiera della lotta all’«entità sionista», è funzionale alla strategia di difesa esterna della Repubblica islamica. La “cintura” dei proxies non solo è una spina nei fianchi per Israele, ma rende effettiva la proiezione strategica costruita dal generale Soleimani, prima vittima eccellente, per mano Usa, della recente stagione dei grandi omicidi strategici. Senza questo scudo protettivo, l’arco sciita, che Teheran tende sino a Beirut sud, avrebbe nel feretro frecce meno acuminate.
L’asse Usa-Israele-sunniti
Fare guerra a Israele senza farla è stato, sin qui, pagante per l’Iran. Anche perché la scelta risponde di fatto alla pressione internazionale per mettere la guerra in forma: quella che molti, Stati Uniti in primis, hanno reclamato, cercando di fissare invalicabili “linee rosse”. Poco a poco, però, sotto i colpi della politica del fatto compiuto di Netanyahu, che nella guerra si gioca tutto e ne fa l’infinita continuazione della politica con altri mezzi, il disegno è saltato.
L’inaudita decapitazione dei vertici di Hezbollah – che prosegue con la caccia a Saffiedine, annunciato successore di Nasrallah – e l’ingresso di Tsahal nel paese dei cedri cambiano radicalmente lo scenario. Bibi scorge ora la possibilità di allineare interessi strategici convergenti: quelli di Israele, quelli degli Usa, quelli dei paesi sunniti della regione, a partire dall’Arabia Saudita, che nell’indebolimento strutturale o, se fosse possibile, nella caduta del regime a Teheran, vedono la possibilità di un mutamento di grande importanza. Improvvisamente, l’agenda mediorientale cambia: nessuno discute più di tregua, ma se convenga o meno puntare a ridisegnare gli equilibri nell’area liquidando l’anomalia iraniana.
Formalmente Israele sostiene di non volere una guerra aperta con l’Iran, ma le mappe esibite dal suo premier all’Onu, così come il preinsurrezionale discorso sul «presto sarete liberi» rivolto alla sua popolazione, inquietano non poco il regime dei turbanti.
Anche nella nuova fase Israele ha, come sempre, un obiettivo minimo e uno massimo. Sul fronte libanese il primo è il respingimento del Partito di Dio oltre il Litani; il secondo, pur non semplicissimo, è la distruzione della forza armata del gruppo sciita.
Ma, dopo il lancio dei missili su Israele, presentato dagli iraniani come rappresaglia per gli «oltraggiosi» omicidi mirati di Haniyeh e Nasrallah, Netanyahu, che riacciuffa il consenso interno, si limiterà a questo o punterà al bersaglio grosso? E, in tal caso, che farà il gruppo dirigente della Repubblica islamica? Il presidente Pezeshkian sembra voler tenere aperto un negoziato che consenta al suo paese di uscire dalla morsa, ma il potere vero è nelle mani dei conservatori e, tra questi, una parte invoca un regolamento di conti con lo stato ebraico.
Tra guerra e diplomazia
Khamenei conosce i rischi ma non può perdere la faccia, come emerso anche nella commemorazione per Nasrallah, tenuta con un fucile accanto, nel quale ha esortato il mondo islamico a unirsi all’Asse della Resistenza, definito «legittimi» gli attacchi contro Israele, affermato che, se necessario, l’Iran colpirà ancora poiché la «pazienza strategica» è finita. La chiave del discorso è in quel «Se necessario».
Quanto ai Pasdaran, umiliati dalle operazioni del Mossad, che palesano il livello di infiltrazione nei loro ranghi e in quelli di Hezbollah, sono consapevoli che, in caso di conflitto aperto, gli Stati Uniti si schiereranno attivamente con l’alleato, e che la debolezza interna del regime è un nodo.
Se potranno, innalzeranno il livello dello scontro, ma senza spingersi troppo oltre. Nel tentativo di salvare il regime e guadagnare tempo. Anche per marciare sulla strada della deterrenza per eccellenza: il nucleare. Un disastroso scontro con Israele metterebbe fine anche alle loro ambizioni di lungo periodo: non esclusa l’idea di gestire direttamente il potere, mediante una trasformazione del sistema in dittatura militare, qualora la delegittimazione del clero conservatore non si arrestasse.
Sull’altro fronte le rassicurazioni degli Stati Uniti, che discutono con Netanyahu l’ipotesi di bombardare i pozzi petroliferi ma non i siti nucleari, consegnano a Israele l’iniziativa del conflitto e l’ambito ruolo di federatore strategico dei molti nemici dell’Iran.
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