Ci sono certe imprese che nella storia americana sono partite dall’azione di una singola persona: l’azione più famosa è ovviamente quella iniziata dal rifiuto della signora Rosa Parks di lasciare il posto a un bianco in un autobus segregato a Birmingham, in Alabama, nel 1955. Altre volte invece, l’azione è stata delittuosa, come nel caso di Joe Hinckley, che nel 1981 ferì gravemente il presidente Ronald Reagan con il bislacco scopo di impressionare l’attrice Jodie Foster.

Allo stesso modo Edward Blum, classe 1952, attivista legale proveniente da una famiglia liberal del Michigan, da più di trent’anni ha preso di mira personalmente l’affirmative action, mirando a scardinarla totalmente dalla società americana.

Di che si tratta? Letteralmente sarebbe un tipo di “discriminazione positiva” che ha radici lontane, implementata con successo dopo le riforme della Great Society approvate negli anni dei presidenti Kennedy e Johnson.

Adesso, in virtù di una recente sentenza della Corte Suprema, è diventato incostituzionale utilizzarla nella scelta degli studenti. E l’università di Harvard e l’Università del North Carolina, oggetto di due ricorsi gemelli, dovranno adeguare i loro test di ammissione.

Biografia intellettuale

Negli anni dell’università il giovane Edward Blum, cresciuto con due genitori di origine ebraica, comincia a formarsi: sembra essere il tipico giovane progressista, cresciuto in un ambiente culturale che aveva il mito di Roosevelt e del New Deal.

Qualcosa si rompe quando, dopo la laurea, va a lavorare in Texas come mediatore finanziario e si trova a risiedere in un distretto a maggioranza afroamericana. Nel 1990 il deputato locale Craig Washington si trova a correre senza opposizione in un nuovo distretto, il diciottesimo, creato dopo che nel 1990 la legislatura statale texana ne creò alcuni per compensare alcune minoranze etniche. In questo caso, quella afroamericana.

Fu allora che Blum decise di candidarsi con i repubblicani, rompendo con la tradizione familiare, per l’ingiustizia che percepiva di vivere in un collegio che era stato cesellato appositamente per eleggere un afroamericano. Blum venne sconfitto, ma non si accontentò di concedere la sconfitta: fece ricorso.

E nel 1996 la Corte Suprema gli diede ragione con la sentenza Bush v. Vera: una ristretta maggioranza di conservatori e centristi gli diede ragione. La suddivisione della mappa elettorale fatta in quel modo, con le strade tagliate grazie ai dati del censimento in modo da favorire un certo risultato rappresentava una pratica incostituzionale.

Blum però non si è fermato lì: anche se in una lunga intervista con il New York Times ha smentito di essere un repubblicano tradizionale, di fatto è associato al movimento conservatore sin da allora. Sono repubblicani i donatori della sua organizzazione, come evidenziato nella già citata intervista, sono repubblicani i suoi sostenitori e di fatto lo è anche lui, anche se ora vive in uno stato, il Maine, dove i repubblicani sono in genere moderati come la senatrice Susan Collins, una delle più moderate dell’intero gruppo al Congresso.

Le ragioni profonde

Ad ogni modo, Blum non ha alcuna intenzione di fermarsi qui. Occorre capire meglio però cosa muove Blum, che ogni mattina alle 4 e 30 del mattino si sveglia per scandagliare le homepage di una miriade di giornali locali in cerca di casi che possano aiutarlo a smontare quella che lui crede essere una gigantesca montatura mediatica fatta per non «affrontare i mali del paese direttamente».

A differenza di altri casi che coinvolgono la regolamentazione ambientale, dove è coinvolto in prima linea il miliardario del Kansas Charles Koch, di idee libertarie e scettico sul cambiamento climatico, qui non ci sono interessi economici, ma soltanto una crociata personale.

Come quella che, a livello locale, ha mosso un altro personaggio, Ward Connerly, un afroamericano nato nel 1939, emigrato in California dalla Louisiana per sfuggire all’irrespirabile clima razzista che vigeva negli anni Cinquanta. Insieme alla moglie bianca Ilene Crews ha fondato uno studio legale, Connerly e Associati, con uno scopo simile a quello di Blum, vincendo la sua battaglia sia nel 1996, quando la progressista California fu tra i primi stati a bandire l’affirmative action grazie a un referendum propositivo, sia nel 2020, quando un altro referendum proponeva di ripristinarla per alcune tipologie di lavoro.

Insofferenza dem

Un dato emerge chiaro: nel 1996, quando la California non era spostata a sinistra come oggi, il 54,6 per cento votò per abolire le preferenze razziali. Tre anni fa i numeri erano aumentati al 57 per cento. Ciò indica che anche un pezzo importante della coalizione di elettori democratici, favorevoli a un welfare generoso e persino a un intervento pubblico nell’economia, non sposi la teoria del razzismo sistemico dietro alle politiche di ammissione delle università, tantomeno sul luogo di lavoro.

Blum, infatti, non fa mistero che il suo obiettivo è sradicarla completamente dalla politica americana, cancellando un correttivo che, se da un lato era stato utile a rendere i campus un po’ più vari dal punto di vista razziale, ha fatto arrabbiare altre minoranze. Nel caso di Harvard, sono gli studenti di origine asiatica a essersi sentiti respingere semplicemente perché «non facevano parte della giusta quota razziale».

Non è un caso quindi che, nonostante lo smacco subito lo scorso 29 giugno, i dem non abbiano in mente una grande azione legislativa per ripristinarla nei college, né di farne argomento di campagna elettorale. Contrariamente a quanto fatto, ad esempio, sulla cancellazione dei prestiti studenteschi per i redditi inferiori ai 125mila dollari, dove invece l’amministrazione Biden ha intenzione di trovare una nuova strada per liberare migliaia di ex studenti da un debito pesante.

L’affirmative action, al contrario, rischia di far perdere un importante pezzo moderato alla coalizione che ha vinto le presidenziali del 2020. Blum quindi, anche se personalmente è diventato una pedina nelle guerre culturali dello schieramento conservatore, mette il dito in uno dei punti deboli del pensiero progressista contemporaneo. Se l’esistenza del razzismo sistemico, che Blum rigetta completamente, ha acquisito sempre maggiori sostenitori, il metodo di combatterlo attraverso una “discriminazione positiva” resta altamente impopolare e lo è da non pochi anni.

L’eccezione

Nella sentenza Students for Fair Admissions v. Harvard però, c’è una precisazione: le accademie militari potranno continuare a utilizzare questo criterio. Forse perché il pericolo di un’infiltrazione del nazionalismo bianco nell’ambiente militare è un rischio che non ci si può permettere, cosa che un moderato come il giudice capo della Corte Suprema John Roberts sa bene.

Non è chiaro però se gli attivisti come Blum e Connerly saranno contenti di questo. Probabilmente no. E anche questo sarà un contenzioso che forse sfrutteranno i candidati repubblicani, che in nome della “neutralità razziale” cercano di attirare verso di sé tutti quei cittadini che, come Blum, si sentono colpiti ingiustamente da questo sistema. Quale ricetta debba essere adottata per superare gli squilibri razziali però non è ancora chiaro.

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