L’ex numero due del partito comunista è morto a Shanghai 68 anni per un infarto. A lui si devono, tra l’altro le riforme fiscali del 2016 e quella post-Covid del 2020
È una Cina in cui tutti, dai colletti bianchi a cui è stato ridotto lo stipendio, agli imprenditori che hanno visto crollare i profitti, devono fare i conti col rallentamento della crescita quella che ha perso il leader che più di altri si è speso per favorire l’economia di mercato, nella convinzione che - così dichiarò all’Assemblea nazionale del popolo - «proprio come il corso del Fiume azzurro e del Fiume giallo, la politica di riforma e apertura non cambierà». L’ex premier Li Keqiang, 68 anni, è morto a Shanghai, quando era appena passata la mezzanotte. A darne notizia, poco dopo le 8:00, la tv di stato CCTV, che ha aggiunto che il giorno precedente l’uomo che ha guidato il Consiglio di stato dal 2013 allo scorso marzo (quando gli è succeduto Li Qiang) ha avuto un infarto e che i tentativi di rianimarlo si sono rivelati vani.
Nel corso della mattinata, il video di Li che pronuncia in parlamento la frase sui due fiumi è stato ripostato milioni di volte dagli utenti di Weibo, il Twitter locale. Negli ultimi dieci anni, a partire dall’ascesa al potere di Xi Jinping nel 2013, Li Keqiang è vissuto all’ombra di Xi. Figlio di un funzionario della povera provincia dello Anhui, l’allora vice di Wen Jiabao (altro premier riformista) fu superato all’ultimo chilometro dal principe rosso, primogenito del rivoluzionario Xi Zhongxun: il XVIII congresso del partito comunista stabilì che sarebbe stato Xi, non Li, a guidare la Cina in una nuova era.
Con la Banca mondiale
Responsabile delle politiche economiche, Li ha provato a farsi valere. Mentre il numero uno del partito lanciava proclami sulla nuova via della Seta, la modernizzazione dell’Esercito popolare di liberazione, e l’ascesa tecnologica della Cina, lui ricordava che nel paese «vivono oltre 600 milioni le persone il cui reddito mensile ammonta ad appena 1.000 yuan (140 dollari), non sufficienti per affittare una stanza nelle nostre città».
Prima di diventare segretario di partito nello Henan e nel Lianoning e poi vicepremier, Li si era fatto le ossa nella Lega della gioventù comunista, di cui era stato segretario dal 1993 al 1998. In seguito, l’organizzazione giovanile parallela al partito sarebbe stata pesantemente ridimensionata da Xi, che l’aveva definita un «gruppo di chiacchieroni». Dall’interno del Consiglio di stato aveva sostenuto “China 2030” un progetto del 2012 elaborato con la Banca mondiale che prevedeva importanti riforme strutturali e la riduzione del potere dello stato. Ma a novembre di quello stesso anno il congresso avrebbe eletto Xi, e la storia avrebbe preso tutt’alta piega. Alla fine Li si è distinto come un burocrate competente: primo premier cinese con una laurea in legge e un dottorato in economia alla prestigiosa Università di Pechino (Beida), inglese fluente, conoscitore del liberalismo e delle teorie politiche occidentali. A lui si devono, tra l’altro le riforme fiscali del 2016 e quella post-Covid del 2020 che hanno abbattuto le imposte sulle imprese per rilanciarne l’attività.
La nuova era
Ma in una fase di difficoltà e di scontro con l’Occidente come quella degli ultimi anni, tra un populista carismatico come Xi e il riformista Li era tutto sommato naturale che a prevalere fosse Xi. Nella cui ombra Li è stato sempre più risucchiato, soprattutto durante il suo secondo mandato conclusosi nel marzo scorso. Non si è trattato soltanto di un confronto tra personalità e idee molto diverse. Il fatto è che Li è stato il numero due in una fase di drammatica ristrutturazione (con tanto di purghe eccellenti) dei vertici del partito: dalla leadership collettiva (nella quale il segretario generale era una sorta di primus inter pares) degli ultimi decenni, all’avvento di quella “personale” di Xi Jinping, tollerata o addirittura assecondata dal partito, perché ritenuta in qualche modo più adatta alle sfide epocali che il paese sta affrontando.
La nomina di Li Qiang – ex capo del partito di Shanghai e fedelissimo di Xi – come successore di Li Keqiang è stato l’ennesimo segnale che un certo tipo di riformismo è caduto nel dimenticatoio, mentre il partito-stato è determinato a rafforzare la sua autorità sull’economia, nel tentativo di governarne il rallentamento.
E così, nel marzo scorso, nella sua ultima apparizione ufficiale da leader, a Li non è rimasto che recitare il copione scritto da Xi, secondo cui l’economia cinese «sta mettendo in scena una ripresa costante e dimostrando un vasto potenziale e uno slancio per un’ulteriore crescita».
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