Sarà che da tempo m’interesso della cosiddetta democrazia militante, ma cresce in me un cupo sentore che l’Europa non sia attrezzata per fronteggiare il prosperante successo delle destre populiste e neofascisteggianti. Si tratta di forze che, con o senza apologetiche nostalgie, promuovono la loro agenda politica con l’invidiabile capacità di accostare un’esaltazione accalorata della legalità (specie quella che non disturba chi delinque in grande stile) a un uso ipertrofico della propaganda.
La democrazia militante è quel moto dell’animo, prima e più che posizione politica, che, con largo anticipo rispetto ad altri, negli anni Trenta del Novecento avvertì l’esistenza di un punto cieco: i partiti democratici, sia di destra che di sinistra, erano costitutivamente incapaci di impedire l’ascesa delle forze autoritarie e illiberali, nella misura in cui queste facevano uso degli strumenti generosamente messi a loro disposizione dallo Stato di diritto. In effetti, dopo gli iniziali insuccessi, i movimenti fascisti conclusero che l’azione capillare di propaganda avrebbe dovuto muoversi di pari passo con la conquista delle leve politiche tramite il ricorso alle libere elezioni.
Bisognava lavorare ai fianchi della svigorita democrazia liberale, destituendola dall’interno. Pertanto, messi al guinzaglio gli eroici furori degli esordi, le destre fasciste pressoché in tutta Europa adottarono il doppio registro del rispetto delle regole e del massiccio ricorso al proselitismo.
Compresero presto che la contaminazione del discorso pubblico, e lo spostamento del campo di battaglia dalla rivolta armata alle questioni valoriali ultime (in cui per certo non si peritavano di credere), garantiva numeri significativi.
E la cosa che più stupiva era la desolata assenza di impianti ideologici robusti: si trattava invero di opportunistici ibridismi, il cui sistema di alimentazione, come per i cacciatori-raccoglitori del paleolitico, si basava sull’acquisizione e sul prelievo di quanto di volta in volta l’ambiente circostante offriva loro. La loro retorica s’infarciva così di intemerate contro i complotti plutocratici, le sostituzioni etniche, il disfacimento delle tradizioni nazionali e il crescente globalismo imperialista di marca anglofona, con una punta di occultismo.
Non dovrebbe sorprenderci la somiglianza con i contenuti delle intemerate d’oggi, perché, se l’essere umano ha una qualche proclività per l’esattezza, questa si esplica innanzitutto nella ripetizione degli errori passati – come in effetti i fatti recenti sembrano confermare.
Il caso tedesco
L’8 ottobre scorso Alternative für Deutschland (AfD) è arrivato terzo in Baviera e secondo nell’Assia. L’AfD non è un partito apertamente neofascista: raccoglie nostalgici e intemperanti, ma ne attenua gli strepiti. E ad avviso di chi scrive, il problema più nodoso sta proprio qui. Dubito infatti che l’affermazione delle destre populiste e neofascisteggianti, almeno nell’immediato, ci getti nelle spire di sistemi autoritari con gerarchi in uniforme seduti sugli scranni del parlamento, ma di certo produce due conseguenze, non solo detestabili e nocive, ma tra loro legate a doppio filo.
Da una parte, costringe anche le destre liberali e conservatrici, quelle che sono indispensabili per una virtuosa dinamica di alternanza politica, nelle paludi retoriche dei messaggi facili, grossolani, tipici delle idee vincenti perché confuse. Dall’altra, spinge le sinistre nelle rive candide della neo-omiletica, irta dei didatticismi untuosi che dividono il bene dal male senza alcuna misericordia per le sfumature e alcun cedimento al dubbio.
Così, i dibattiti nostrani languono nello sciabordio prodotto dal mescolarsi di due estremismi eguali e contrari: un perbenismo censurista e un discorso d’odio tronfio e a briglia sciolta. In sostanza, il problema è che, se l’ideologia ibrida e malcerta della destra populista, che si nutre di richiami facili, assicura consensi, ma non dà indicazione alcuna su come risolvere i problemi (né i globali né i condominiali), chi a sinistra insegue di rincorsa sulla pista della moralità e dell’urbanità perde la bussola del pragmatismo (e, non infrequentemente, il senso del ridicolo).
La militanza democratica, cent’anni dopo, deve spostarsi sul piano della concretezza: per limitare l’ascesa elettorale delle destre estremistiche, bisogna offrire dei piani uniformi, coerenti e credibili per risolvere ciò di cui queste solo parlano e mai davvero si occupano. Abbandonare il terreno scivoloso, oltreché inconcludente, della lotta morale tra bene e male e piuttosto convincere l’elettorato che un progetto politico c’è. Ma c’è?
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