L’Afghanistan parteciperà alle Olimpiadi con una squadra di tre donne e tre uomini. Il regime talebano non la riconosce. E secondo l’atleta Friba Rezayee la vera lotta contro «l’apartheid di genere» sarebbe escludere del tutto il paese dai Giochi
Alle Olimpiadi di Parigi c’è una squadra disconosciuta dal proprio governo: l’Afghanistan. Da quando i talebani sono tornati al potere nel 2021 molte cose sono cambiate, soprattutto per le donne. I talebani vietano la partecipazione delle atlete afghane alle Olimpiadi; per il regime, infatti, le donne non possono praticare sport. Questo divieto però va contro i principi della Carta Olimpica sulle discriminazioni di genere.
La questione Olimpiadi
Il Comitato Olimpico Internazionale (Cio) ha recentemente stabilito che l’Afghanistan verrà rappresentato da una squadra composta da tre uomini e tre donne. Gli atleti maschi parteciperanno alle gare di atletica, nuoto e judo; le donne faranno atletica e ciclismo.
Questa decisione ha suscitato reazioni negative sia da parte del regime, che non vuole riconoscere le atlete donne, sia da parte di alcuni sportivi afghani che chiedono di impedire al paese di partecipare. La partecipazione è vista dagli atleti come un implicito riconoscimento di un regime violento che non rispetta i diritti umani. In risposta al rifiuto del regime talebano di riconoscere la squadra, il Comitato olimpico ha fatto sapere che nessun funzionario talebano sarà accreditato per i Giochi.
La questione è controversa anche per il fatto che sia il presidente del Comitato olimpico nazionale (Noc) dell'Afghanistan, sia il suo segretario generale sono attualmente in esilio, così come quasi tutti i membri della squadra olimpica.
Come ha sottolineato Friba Rezayee, atleta di judo alle Olimpiadi di Atene del 2004, intervistata dal Nyt, le atlete donne sono state costrette a lasciare il paese per potersi allenare e preparare per i Giochi, dato che i talebani hanno vietato loro di praticare sport, di partecipare alle competizioni e persino di accedere alle palestre.
«Nessuna delle tre donne che rappresentano l'Afghanistan, nell'atletica e nel ciclismo, vive e si allena nel paese, né potrebbe visitarlo senza rischiare la vita», dice Rezayee.
Il portavoce del Cio Mark Adams in conferenza stampa ha detto che «nessun rappresentante delle autorità de facto, il governo talebano, sarà accreditato per i Giochi olimpici del 2024», ma anche che sono in corso trattative sia con il Comitato olimpico nazionale sia con le autorità sportive «con l'obiettivo di revocare le attuali restrizioni all'accesso allo sport per le donne e le ragazze in Afghanistan». Il fine è quindi quello di evitare la discriminazione degli atleti afghani per via della loro provenienza: chi deve subire restrizioni è il regime talebano, non gli atleti stessi.
Per Rezayee comunque «non è questo il punto», perché «la decisione di consentire a una squadra afghana di competere è un atto di riconoscimento, anche se involontario, di un regime che punisce le donne per la partecipazione agli sport». Lo stesso ruolo attivo del Cio è «agire contro qualsiasi forma di discriminazione che colpisca il movimento olimpico», e dunque contro le discriminazioni messe in atto dai talebani, in questo caso.
Le richieste di non partecipazione
In seguito alla decisione del Comitato Olimpico di far partecipare atleti esiliati in una squadra non riconosciuta dal regime, vi sono stati diversi appelli per chiedere l’esclusione del paese dai Giochi.
Rezayee, ha chiesto con una petizione al Cio di escludere l'Afghanistan dalle Olimpiadi: «Considerate le tonnellate e tonnellate di prove sui talebani e sul loro trattamento brutale di donne e bambini, se il Cio permetterà loro di partecipare alle Olimpiadi nel cuore dell'Europa, a Parigi nel 2024, sarà molto pericoloso». L’atleta ha poi specificato come, sebbene la decisione di far gareggiare una squadra in cui vige la parità di genere sia di per sé positiva, questo non rispecchia la realtà dei fatti.
Viene infine chiesto che le atlete possano partecipare alle competizioni sportive in modo indipendente, senza quindi essere iscritte al comitato nazionale, perché «non c’è bisogno di chiedere il permesso ai talebani».
Rezayee è stata tra le prime due atlete olimpiche afghane, insieme alla velocista Robina Muqimyara, a gareggiare ai Giochi olimpici vent’anni fa, e ritiene che una volta bandito l’Afghanistan, le sue atlete dovrebbero comunque essere ammesse ai giochi come parte della Squadra Olimpica dei Rifugiati. Ma secondo le regole del Cio, gli atleti devono prima avere lo status di rifugiati per essere parte di quella squadra.
Il precedente
Il Cio escluse il paese dalle Olimpiadi di Sydney del 2000 proprio per le discriminazioni dei talebani contro le donne. In particolare venne escluso dal 1999 al 2003 quando alle donne era stato vietato di praticare sport e quando il governo, esattamente come accade al giorno d’oggi, non era riconosciuto dalla comunità internazionale.
«Questo divieto fu revocato dopo la caduta dei talebani nel 2001, aprendo la strada alla mia presenza alle Olimpiadi di Atene del 2004» racconta Rezayee, dunque escludere l’Afghanistan dai giochi sarebbe una possibilità.
Il senso dell’esclusione sarebbe quello di opporsi alle discriminazioni di genere vigenti in Afghanistan. All’esclusione del paese dai giochi del 2000 seguirono «più di 15 anni di lenti e scrupolosi progressi verso una maggiore uguaglianza di genere». Non fu un percorso privo di rischi, «ma arrivò, finché non fu strappato di nuovo nell'agosto 2021», dice Rezayee.
Il regime e la discriminazione di genere
Quando nel 2021 i talebani hanno ripreso il controllo del paese, una delle prime mosse è stata di vietare alle donne e alle ragazze di partecipare pubblicamente agli sport.
Sotto il regime dei talebani si deve seguire la legge della Sharia, secondo la quale praticare sport è inappropriato e non necessario, per le donne. Lo sport è solo una delle attività proibite alle donne afghane; fra le altre vi sono la politica, la scuola, il lavoro, ma anche ridere ad alta voce, scoprire le caviglie, usare cosmetici, la lista sembra infinita.
Secondo un documento dell’Atlantic Council, le donne afghane vivono attualmente in quello che dovrebbe essere definito un «apartheid di genere».
Dopo la ritirata dell’esercito americano, il 15 agosto 2021 i talebani riprendevano il controllo di Kabul ed entro pochi giorni emanavano la loro prima direttiva che ordinava alle donne di rimanere chiuse in casa; da quel momento in poi c’è stata una regressione dei diritti delle donne.
Le donne che rischiano la vita lottando ogni giorno contro le restrizioni del regime «meritano la piena solidarietà della comunità internazionale nella loro lotta», dice Heather Barr di Human Rights Watch citata dal Nyt.
Il senso dell’insieme delle leggi internazionali, delle istituzioni e della comunità internazionale tutta è anche quello di garantire il rispetto dei diritti umani in paesi in cui questo non è assicurato. Le strategie sono tante e diverse. Le Olimpiadi di Parigi potrebbero essere una buona occasione per limitare il margine di azione dei talebani. E «un modo per mostrare solidarietà è quello di rifiutarsi di offrire ai talebani qualsiasi impressione di legittimità», aggiunge Barr.
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