- Tante famiglie hanno nulla osta validi e documenti in regola per arrivare in Italia, ma dalla caduta di Kabul non sanno a chi rivolgersi per partire. La Farnesina tace.
- Non si dà pace Karim, operaio specializzato alla Fincantieri di Ancona, da 12 anni in Italia sotto protezione internazionale.
- Alla moglie Ahmadi e ai figli Sajjad e Raihanna, di nove e tre anni, mancava solo il visto per l’espatrio nei giorni in cui la capitale afghana cadeva in mano ai fondamentalisti.
«Avevo fatto tutte le carte per il ricongiungimento, il 18 agosto scorso dovevo solo legalizzare i documenti ma i Talebani hanno preso Kabul e l’ambasciata italiana ha chiuso due giorni prima dell’appuntamento». Non si dà pace Karim, operaio specializzato alla Fincantieri di Ancona, da 12 anni in Italia sotto protezione internazionale. Alla moglie Ahmadi e ai figli Sajjad e Raihanna, di nove e tre anni, mancava solo il visto per l’espatrio nei giorni in cui la capitale afghana cadeva in mano ai fondamentalisti.
Bloccati in Afghanistan
Alla fine non l’hanno mai ottenuto, nonostante i solleciti per la situazione che stava precipitando. La pandemia ha rallentato per mesi il lavoro dell’ambasciata, che anche negli ultimi giorni riceveva solo su appuntamento. Così sono rimasti bloccati in Afghanistan pur avendo tutte le carte in regola per raggiungere l’Italia.
«Mia moglie e i bambini rischiano ritorsioni perché lei faceva l’insegnante e professava la libertà delle donne», spiega Karim. «Purtroppo non sono riusciti a salire sui voli organizzati dal governo italiano: quando sono arrivati nei pressi dell’aeroporto c’è stato l’attentato kamikaze e sono dovuti scappare. Tutto quello che chiedo è di aiutarmi a portarli via da lì».
I visti per l’espatrio non arrivano
La loro è solo una delle tante storie di famiglie spezzate che ora chiedono al governo Draghi un intervento umanitario. Molti hanno i nulla osta validi e i documenti in regola per il ricongiungimento famigliare. Per altri il fascicolo era pendente quando è caduta Kabul e ora non sanno a chi rivolgersi per proseguire e tentare di riunire la famiglia. I numeri esatti delle pratiche ultimate e di quelle sospese dell’ormai ex ambasciata italiana a Kabul non si possono conoscere: la Farnesina fa sapere a Domani di «non poter rilasciare informazioni al momento».
Ma sono circa 27mila i cittadini afghani che vivono in Italia con la protezione internazionale. I loro famigliari ora vivono in clandestinità, o sono fuggiti in Pakistan nella speranza di potersi recare all’ambasciata italiana a Islamabad. L’avvocato Marco Sitran, studio legale a Venezia e a Bucarest, sta cercando di assisterli come può, manda continue mail agli uffici del ministero degli Esteri, a cui chiede di intervenire per rimuovere gli ostacoli burocratici: «Da mesi si sapeva dell’avanzata inesorabile dei talebani che già a marzo controllavano buona parte del territorio afghano».
«Ma l’ambasciata è stata molto lenta nel rilasciare i visti per l’espatrio», sostiene Sitran. «Salvare la vita dei familiari di chi ha chiesto e ottenuto il nulla osta al ricongiungimento, e risiede in Italia sotto protezione internazionale, è un obbligo e un dovere per lo stato italiano».
I problemi di chi è fuggito in Pakistan
Ogni spostamento in Afghanistan è ormai ad alto rischio: «I talebani uccidono anche senza motivo», racconta Alizada, cuoco in un ristorante nelle Marche, arrivato in Italia nel 2007 dopo un viaggio della speranza durato cinque anni, «Siccome non eravamo sicuri che gli italiani imbarcassero le donne anche senza un visto mia moglie non è andata all’aeroporto durante le evacuazioni. Troppo rischioso, ti beccavi un proiettile o ti potevano travolgere e nessuno si sarebbe chiesto perché».
La moglie Masoomeh aveva fatto la pratica per il ricongiungimento nel 2020, prima della pandemia, ma «quando doveva andare a legalizzare i documenti erano tutti chiusi», ricorda Alizada, «ha aspettato la chiamata dell’ambasciata, ma non ha più saputo nulla fino al 2021». Ora Masoomeh è scappata in Pakistan con i fratelli. «In Afghanistan non possono più restare, i suoi fratelli facevano parte della polizia afghana e insegnavano in un’accademia militare di Kabul che è finita in mano ai talebani. Dentro alla sede c’erano i registri, i computer portatili con i dettagli di tutti i membri e dei famigliari. Ora le liste sono in loro possesso. Se lavoravi col governo devi sapere che prima o poi la pagherai, non solo tu, ma anche tutti i tuoi famigliari».
Così sono rimasti alcuni giorni nascosti e poi sono riusciti a varcare il confine con il Pakistan. Anche se lì, spiega Alizada, temono i sevizi segreti pakistani che sono in contatto con i talebani. Masoomeh faceva l’insegnante alla scuola media. «Ora è un disastro, vedo sui social che hanno imposto la divisione tra ragazze e ragazzi, una sorta di muro di stracci in classe, la gente per la paura non va più a scuola. Siamo tornati agli anni Novanta, la poca libertà che avevamo è stata eliminata».
L’ambasciata italiana in Pakistan però non accetta chi ha legalizzato i documenti a Kabul. «Faccio un appello agli amici italiani», conclude Alizada: «Dateci un visto per far venire qui mia moglie, così magari riesco a salvarla. Tutta la famiglia non riesco, ma lei la devo salvare».
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