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Anna Prouse è la protagonista dell’ultimo podcast di Pablo Trincia, Le guerre di Anna e ha passato 8 anni in Iraq a partire dai primi anni 2000, ricoprendo vari incarichi governativi e per la Croce Rossa, scampando a diversi attentati e a una fatwa contro di lei.
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È una grande esperta di questioni mediorientali, e vede nell’attuale scenario afghano molti parallelismi con la situazione in Iraq.
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«Se oggi mi si chiedesse se, potendo tornare indietro, deciderei di andare in Iraq come feci nel 2003 dedicando otto anni della mia vita a quel paese, la risposta sarebbe sì. Sì, ma solo perché – nonostante un ritiro frettoloso da parte degli Stati Uniti nel 2011 che mi fece sprofondare nella disperazione – gli Stati Uniti fecero marcia indietro».
Se oggi mi si chiedesse se, potendo tornare indietro, deciderei di andare in Iraq come feci nel 2003 dedicando otto anni della mia vita a quel paese, la risposta sarebbe sì. Sì, ma solo perché – nonostante un ritiro frettoloso da parte degli Stati Uniti nel 2011 che mi fece sprofondare nella disperazione quando fu annunciato dall’allora presidente – gli Stati Uniti fecero marcia indietro. Un’inversione che diede ragione a tutti coloro che, come me, sapevano che ritirarsi senza lasciare un contingente, seppur minimo, a fungere da deterrente contro gruppi terroristici con manie espansionistiche, e sunniti iracheni privati di ogni diritto, era una follia.
Lo Stato islamico prese piede in Iraq conquistando un terzo del paese nonché Mosul e il loro Califfo non aveva nessuna intenzione di fermarsi lì. Il ritiro americano gli aveva aperto le porte di Baghdad e i suoi uomini si accingevano a conquistarla. Fu allora che gli Stati Uniti decisero di mandare rinforzi affinché l’esercito iracheno potesse riprendere il controllo della situazione. Assieme ad altri attori regionali, tra cui l’Iran di Qasm Soleimani, liberarono Mosul prima di sconfiggere lo Stato islamico cacciandolo dall’Iraq. La liberazione di Mosul costò oltre 10mila morti di civili iracheni.
La fuga
Temo che gli afghani non saranno così fortunati, sempre che di fortuna si possa parlare. Perché ne sono morti di iracheni, e non solo a Mosul. Uomini e donne che mi avevano supportato con entusiasmo e devozione dovettero tornare sul campo di battaglia: non ultimo il capo della polizia di Nasiriyah che mi aveva protetta per anni. Venne avvelenato dagli uomini dell’Isis.
Oggi come allora il mondo si chiede come mai eserciti ben addestrati e armati se la diano a gambe, senza opporre resistenza a gruppi che si impossessano del loro paese seminando terrore al suono di inni jihadisti. Fuggono, abbandonando tutto l’arsenale donato loro negli anni dagli Stati Uniti, rispettivamente a combattenti Talebani in Afghanistan o a terroristi Isis in Iraq.
Lavorai con il generale David Petraeus in Iraq e posso dire che il suo cosiddetto “Surge” ebbe l’effetto desiderato. Il Surge consisteva nell’aumento di truppe in Iraq, ma anche dell’aumento di idee per contrastare la dilagante insorgenza non solo nella capitale ma anche in territori che sino ad allora gli americani avevano ignorato. La nascita dei Prt, squadre di civili e militari che venivano mandate per interagire con la popolazione nelle varie province anziché rimanere asserragliate su basi militari, fu una delle conseguenze. Anni dopo, mentre l’Iraq stava andando allo sfacelo e Mosul cadeva nelle mani dell’Isis, andai a trovare il generale nel suo ufficio di New York dove gli confidai il mio smarrimento nell’assistere alla distruzione di tutto ciò per cui cui così tanti erano morti. Se il generale era allibito dal fatto che l’esercito regolare avesse abbandonato il campo di battaglia senza opporre resistenza, io non lo ero affatto: con gli iracheni ci avevo vissuto gomito a gomito, dai massimi livelli ai venditori di tè e di kebab. Ero andata a matrimoni e funerali, avevo frequentato i loro parchi e le loro moschee. Mi confrontavo con la loro realtà quotidiana, una realtà che mi aveva aperto gli occhi al fatto che gli iracheni si aspettavano che noi stranieri facessimo il lavoro sporco per conto loro.
Un esempio in scala ridotta fu quando l’allora governatore della provincia del Dhi Qar mi chiamò lamentandosi dei pannelli solari che avevo donato ad uno degli uffici del governatorato. Avevano, apparentemente, smesso di funzionare. Non mi ci volle molto a scoprire che il malfunzionamento dei pannelli era dovuto all’indolenza degli iracheni per i quali rimuovere la sabbia dai pannelli era una mansione troppo onerosa. Noi avevamo donato loro i pannelli; noi dovevamo pulirli. Ora estendete questo modus operandi alla protezione del loro paese: siete ancora sorpresi che si aspettassero che qualcun’altro si rimboccasse le maniche al posto loro?
Se poi andiamo ad aggiungere che, appena gli americani lasciarono l’Iraq, l’allora primo ministro Nuri al Maliki mise i suoi fedelissimi in posizioni elitarie, anche all’interno di esercito e polizia, il quadro si completa ulteriormente. Ufficiali altamente addestrati e con esperienza sul campo di battaglia vennero rimpiazzati da amici del premier con zero competenze e, soprattutto, zero capacità di comando. I generali di al Maliki fuggirono alla vista degli uomini del Califfato e le truppe irachene, abbandonate a loro stesse e senza un leader, panicarono.
Che cosa ci aspettavamo? Che un gruppetto tra questi soldati malpagati e perlopiù analfabeti prendesse in mano la situazione? Ma ci dimentichiamo che l’Iraq proviene da decenni di dittatura dove l’iniziativa del singolo viene punita con la morte? Fu così che 1.500 combattenti dello Stato islamico ebbero via libera nella loro cavalcata verso Mosul. Le loro espressioni incredule la dicevano lunga: neppure loro riuscivano a capacitarsi che 30mila soldati e altrettante forze della polizia si erano dileguate lasciando che la minacciosa bandiera nera dello Stato islamico troneggiasse sulla seconda città irachena.
Il costo del ritiro
E ora veniamo ad oggi. Paese diverso, scenario simile. Fino a pochi giorni fa i Talebani non controllavano una singola provincia afghana. Ora controllano tutto il paese. Il presidente americano e il suo entourage affermano che non si aspettavano una tale débâcle. Ma com’è che, ancora una volta, gente come me non aveva dubbi che l’Afghanistan sarebbe caduto nelle mani dei Talebani, mentre i più grandi esperti ci raccontavano che un esercito afghano ben addestrato e attrezzato con equipaggiamento moderno avrebbe prevalso? Ma dov’erano questi esperti quando l’Iraq cadeva nelle mani dell’Isis? Quando gli Stati Uniti dovettero fare marcia indietro, e quando fu deciso che una presenza minima nel paese doveva rimanere?
Dov’erano quando ci si rese conto che corruzione dilagante, scarsa fiducia nel proprio governo, mancanza di ideali per cui morire erano tra le ragioni per la débâcle irachena, tutti sintomi più che presenti in Afghanistan? Senza contare lo sfinimento di ambedue le popolazioni che si sono trovate a combattere una guerra dietro l’altra, ininterrottamente, per decenni?
Modello Corea
Se in Iraq, ad oggi, ci sono 2.500 soldati per assicurarsi che venga mantenuto lo status quo, che cosa faceva pensare a questi esperti che in Afghanistan si potesse fare a meno di una presenza? Che la maggioranza di noi stranieri dovesse lasciare l’Iraq così come l’Afghanistan è qualcosa con cui concordo. Ma così come gli Stati Uniti hanno ancora un contingente in Corea del Sud, non pensavano di dover fare lo stesso in Afghanistan per arginare la ferocia dei Talebani e, ora, anche dello Stato islamico?
Ammontano a 28mila uomini le truppe americane in Corea del Sud. Non sono una stratega militare e avanzare ipotesi su un numero adeguato di soldati che avremmo dovuto lasciare in Afghanistan non è qualcosa in cui mi voglio cimentare. Ma una cosa è certa: con meno di 5mila soldati americani sul suolo afghano, delle 34 capitali provinciali nessuna era in mano talebana.
Durante le varie amministrazioni americane, il numero era sceso da 10mila durante la presidenza di Obama, a 5mila durante quella di Trump. Che bisogno c’era di ridurre la presenza a zero dall’oggi al domani? Le ripercussioni sulla popolazione afghana stanno scioccando il mondo. Ma vi saranno ripercussioni disastrose anche in altri paesi, con Pakistan – dove i Talebani non vedono l’ora di rovesciare il governo – in cima alla lista.
Il 14 aprile scorso con il suo annuncio al mondo di voler ritirare tutte le truppe americane dall’Afghanistan entro l’11 settembre, Biden ha distrutto uno status quo che avrebbe potuto durare per decenni a venire.
Uno status quo più unico che raro, visto che veniva a un costo minimo sia dal punto di vista delle vite umane sia a livello di investimento economico.
Il presidente ha criticato il suo predecessore in tutto e per tutto: come mai, in una materia così delicata come l’Afghanistan dove sono state messe in gioco le vite di centinaia di migliaia di persone nonché dinamiche internazionali di importanza vitale, ha seguito pedissequamente la strategia di Trump? Ora non possiamo che sperare che Biden decida di fare marcia indietro, così come accadde in Iraq. Ma, se in Iraq l’inversione di rotta riuscì a passare pressoché inosservata da parte dell’elettorato americano e a livello internazionale, Biden non sarà così fortunato. Avrà dunque il coraggio di farlo o proseguirà con questa sua follia?
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