- Nella grande partita attorno all’Asia centrale c’è un paese che non esiste sulle carte geografiche, e che tuttavia ha il suo inno nazionale, la sua bandiera e un giorno dedicato a festeggiare l’indipendenza.
- Doveva nascere nel 1947 dopo la frantumazione delle Indie britanniche, con il nome di Pasthunistan, il paese dei pasthun. La frustrazione per questo stato promesso e mai nato ha ispirato, favorito l’avventura dei Talebani entrati in Afghanistan nel 1996, usciti nel 2001, rientrati a Kabul in queste settimane.
- Oltre allo stato negato dei pasthun c’è stato un altro ostacolo politico nella vita più recente dell’Afghanistan. Dopo le Torri colpite a New York fu deciso che assieme ai soldati arrivasse la democrazia.
Niente affiora sui due annessi segreti di Doha firmati da Trump con i Talebani un anno e mezzo fa. Troppo ben custoditi per non contenere qualcosa di imbarazzante, o spregiudicato. E l’Afghanistan oggi governato dal figlio e dagli altri eredi del mullah Omar ha ancora una fisionomia confusa, che progressivamente produce restrizioni, divieti di manifestare e frustate.
La caduta del governo
Un segnale chiaro e frettoloso è arrivato comunque dal Pakistan. I droni di Islamabad sono già comparsi nella valle del Panshir per spegnere la rivolta guidata dal figlio del leggendario comandante Masud. E il generale Fayez Hameed, capo dell’ISI, i servizi segreti pachistani, si è velocemente presentato a Kabul. L’hotel in cui è apparso appartiene alla più lussuosa catena alberghiera pachistana, costruito quando cominciarono ad arrivare diplomatici ed esperti al seguito delle forze Nato venti anni fa. Imprenditoria di sapore coloniale in un potenziale protettorato.
La visita del generale conferma che la caduta del governo afghano ha goduto della sua supervisione. Ha dovuto fare pressioni sui mullah per contenere le loro ambizioni ministeriali. Ma soprattutto conciliare due importanti tribù pasthun, quella dei Durrani e quella dei Ghilzai, la prima installata a Kandahar, l’altra dominante nelle province orientali. Fu un leader dei Durrani a creare l’impero afgano nel 1700. Il generale in fondo può anche vantare di avere pesantemente ammaccato l’immagine degli Stati Uniti nel mondo. E confermare ancora una volta che il potere vero a Islamabad sta nelle mani dell’Isi.
Di fronte a questa solerzia pachistana Pechino mostra benevolenza, Mosca invece resta taciturna. Teheran ha già fatto sentire la sua preoccupazione per la etnia hazara, di fede sciita, che risiede nelle zone centrali del paese, più assediata di tagichi e uzbechi vicini al confine, favoriti nella eventuale fuga. Ad Ankara avevano anticipato la loro valutazione: ascoltiamo le parole dei Talebani ma guarderemo le loro azioni. E anche a New Delhi e a Doha è difficile fare previsioni ragionevoli. Troppi attori sono coinvolti in una partita che alimenta ambizioni, timori e rischi.
Il generale dell’ISI è stato affiancato dalle parole di un suo predecessore, che descrive l’Afghanistan come un paese in buona parte “felice”. Mentre i Talebani arrivati nelle stanze del potere sembrano ancora personaggi in sala d’aspetto, disorientati, in attesa di capire da quali capi ricevere ordini e a chi darli, e come amministrare un intero paese. Ma è difficile pensare che possano diffondere l’immagine dei liberatori, come loro sostengono. In una sintesi brutale sono le truppe infide di un paese confinante.
Nel centro di Kabul, vicino al fiume, sorge la Colonna del sapere e dell’ignoranza costruita negli anni Venti del secolo scorso. Può essere considerata un monumento preveggente, un segnale di allerta, purtroppo valido ancora oggi. I nomi incisi su quelle pareti di pietra ricordano i soldati governativi mandati a morire per fermare una rivolta scoppiata nel sud del paese, alimentata dai mullah integralisti e dalla potente tribù pasthun dei Mangal contro la modernizzazione avviata dal re Amanullah. Una nuova scuola femminile era stata il pretesto della rivolta. I soldati morti neanche sapevano cosa difendevano, e la stessa ignoranza contagiava i ribelli.
A distanza di un secolo una scuola femminile è sempre il pretesto della regressione. Oggi i Talebani mostrano armi che vanno oltre il kalashnikov e divise nuove. Sono immagini che servono per le riprese televisive destinate al mondo esterno. Poi il programma di governo riparte dagli abiti femminili, dalle pareti di stoffa a scuola, tra maschi e femmine, e con lo sport vietato alle donne.
Storia postcoloniale
Ma i pachistani più di altri non possono dimenticare una cosa. L’Afghanistan è diventato indipendente nel 1919. Solo trenta anni dopo il Pakistan ha visto partire gli inglesi. Nella storia postcoloniale avere raggiunto l’indipendenza prima di altri resta sempre un punto di forza e di orgoglio. E nella grande partita attorno all’Asia centrale c’è un paese che non esiste sulle carte geografiche, e che tuttavia ha il suo inno nazionale, la sua bandiera e un giorno dedicato a festeggiare l’indipendenza. Un paese a cavallo tra Afghanistan e Pakistan, compreso nelle zone tribali, lungo un confine contorto e montuoso di 2.600 chilometri, disegnato alla fine dell’Ottocento da sir Mortimer Durand, inglese.
Doveva nascere nel 1947 dopo la frantumazione delle Indie britanniche, con il nome di Pasthunistan, il paese dei pasthun, e avere come capitale Jalalabad. Aveva anche un leader, Ghafar Khan, soprannominato il Gandhi della frontiera. Il mio interprete afgano era stato per alcuni anni il suo assistente, ed era stato testimone della sua vita sobria, dignitosa, in difesa di quel progetto. Andando oltre le idee dello stesso Gandhi aveva anche immaginato il primo esercito pacifista della storia.
Quando morì la guerra afgana combattuta dai sovietici fu interrotta per 24 ore in segno di rispetto, il confine di Torkham aperto a chiunque purché non fosse a piedi. La salma fu accompagnata da una folla enorme, eccitata, stimata in circa 40mila persone da Peshawar a Jalalabad, avvolta dalla polvere del Khyber pass. Le auto riuscivano in alcuni punti a viaggiare temerariamente affiancate su quattro file, perfino nei tornanti. Un professore di storia, fermo a fianco della sua auto fumante, diceva che neanche ai tempi di Tamerlano e di Gengis Khan l’Asia centrale aveva visto una processione così irruenta. Il corpo di Ghafar Khan era stato sepolto in giardino, nella casa regalata dal re afgano, con ventuno salve di cannone. E anche durante quel rito funebre spettacolare, dove era rimasto intrappolato casualmente un convoglio di carri armati russi, c’erano state due bombe senza rivendicazione.
La frustrazione per questo stato promesso e mai nato ha ispirato, favorito l’avventura dei Talebani entrati in Afghanistan nel 1996, usciti nel 2001, rientrati a Kabul in queste settimane. Eredi deviati e violenti di chi proprio in quelle zone aveva immaginato di organizzare un esercito pacifico.
I cosiddetti studenti islamici, che negli anni si sono mescolati ad autentici tagliagole, non hanno portato grande sollievo ai pasthun delle aree tribali, dove le condizioni di vita sono sempre povere e aspre. Le strade sono poche e maltenute, la sanità e le scuole hanno strutture rudimentali, l’economia ha risorse modeste. La giustizia applica consuetudini antiche, locali, che spesso contrastano con le leggi del governo centrale. Mentre l’idea bellicosa e sbrigativa dell’onore è sempre attuale. Nella gerarchia sociale avere un’arma di qualità corrisponde a esibire un’auto straniera e costosa. Un medico teneva in giardino un mortaio cinese capitato lì per vie misteriose, molto ammirato nel villaggio. Un suo vicino però, funzionario al ministero degli Esteri pachistano, custodiva nella casa di famiglia, tra i melograni, una vecchia contraerea inglese, oliata e protetta da una incerata. Per sintetizzare, perfettamente funzionante.
L’esercito regolare di Islamabad non era mai entrato nelle zone tribali fino alla comparsa da quelle parti di Bin Laden. Era stato costretto dalle pressioni insistenti degli americani che chiedevano di “sigillare” tutta la frontiera lungo la linea Durand, come non avessero mai visto una mappa, una foto aerea di quel territorio.
Quando i soldati fecero la prima apparizione il governo di Islamabad aveva precisato che le tradizioni locali sarebbero state rispettate. Certo, sulla strada del Khyber pass dieci anni fa la manodopera talebana si inorgogliva a incendiare le autocisterne cariche di petrolio per l’esercito della Nato, a farsi fotografare sulle carcasse distrutte e poi a dileguarsi in motocicletta. Questo stato promesso nel tempo ha funzionato come una miccia a lenta combustione. Anche perché la linea Durand non divide nulla nella realtà, ci sono oltre trecento punti di transito riservati alle popolazioni locali sui due lati di quel confine disegnato a matita. Un confine che le autorità di Kabul non hanno mai riconosciuto.
Perfino gli stessi inglesi, nonostante la turbolenza e la fierezza diffusa nelle aree tribali, alla fine avevano preferito affidare la gestione dei commerci verso Kabul, e oltre verso il nord, alla efficiente tribù degli afridi piuttosto che ai loro funzionari coloniali. La stessa tribù che nel tempo ha creato nella zona franca di Darra una attiva, rinomata produzione di armi leggere, con officine e negozi distribuiti sui due lati di una lunga strada, come nel far west americano, con i clienti che escono in strada sparando in aria per collaudare i loro freschi acquisti. Anche armi più pesanti e sofisticate possono essere fornite dai venditori di Darra, in un contesto di tollerata illegalità, di apprezzata insubordinazione.
Nel 2008 da queste parti, nel sud Waziristan, era scomparso un diplomatico afgano, portato in una vallata deserta, torturato per sei mesi, trasferito in diciassette luoghi diversi, prigioniero per oltre due anni, interrogato da inquisitori arabi, e alla fine liberato dietro pagamento. Quando la sua prigionia diventa meno pesante si ritrova assieme a un diplomatico iraniano. Questo verrà liberato prima, in cambio di missili anti-aerei forniti da Teheran. Secondo i metodi della famiglia Haqqani, dalla quale proviene il brutale ministro degli Interni oggi installato a Kabul.
Una sintesi dei rapporti semplici e allo stesso tempo furtivi tra clan tribali era stata ben rappresentata dal meccanismo usato da Al Qaeda per fare avere i suoi comunicati ad Al Jazeera. Quando fu inaugurato l’ufficio di Islamabad della più diffusa rete televisiva nel mondo islamico, con il presidente venuto da Doha in mezzo ai notabili locali, tra cui il generale Gul, ex capo dell’ISI, un cronista spiegò che loro ricevevano i messaggi dei terroristi attraverso una busta banalmente infilata nella cassetta delle lettere, sempre ricca di posta, a orari variabili. Nessuno aveva pensato, o meglio aveva voluto mettere un agente in borghese a tenere d’occhio quell’ufficio e seguire poi l’ultimo messaggero anonimo di una filiera ben rodata. In quella occasione l’ISI era impegnata a non vedere. Bin Laden poteva restare ancora senza troppe ansie nei suoi rifugi.
Imporre la democrazia
Oltre allo stato negato dei pasthun c’è stato un altro ostacolo politico nella vita più recente dell’Afghanistan, creato unicamente dagli occidentali. Dopo le Torri colpite a New York e l’arrivo in tre mesi della Nato fu deciso che assieme ai soldati arrivasse la democrazia. Così nel 2004 sotto l’ombrello dell’Onu furono allestite le elezioni con il rito delle persone in coda, delle schede e del dito intinto nell’inchiostro. Scene rassicuranti. Ma sempre le Nazioni unite avevano già una notizia allarmante, che avrebbe dovuto far rinviare quel rito: la loro agenzia che combatte la droga sapeva che l’Afghanistan dopo la stagione dell’oppio si era trasformato nel primo produttore al mondo di eroina. Sarebbe nato un parlamento già guasto, infiltrato da boss mafiosi che compravano direttamente i deputati. Le cifre sulla droga furono rese pubbliche due mesi dopo le votazioni, mentre gli scrutini dei voti procedevano senza fretta.
Recentemente Lakhdar Brahimi, l’uomo che liberò gli ostaggi americani a Teheran trenta anni fa, poi rappresentante speciale Onu in Afghanistan per due volte senza però contestare troppo il sistema, ha detto: «Un’elezione in un paese che esce da un conflitto è considerata come la prima cosa da fare, invece dovrebbe essere l’ultima…Le elezioni devono aver luogo il più tardi possibile perché dividono le persone, non le uniscono».
La grande partita diplomatica attorno all’Asia centrale tradizionalmente distrugge gli imperi ma con il tempo ha ridotto le vittime straniere. Nella prima guerra anglo-afgana nel 1842 il corpo di spedizione britannico partì da Kabul in pieno inverno, con 16mila persone, compresi i civili. Fu una partenza decisa con ostinata pavidità. In uno scontro tra vertici politici e vertici militari che è continuato fino a oggi, in ogni paese occidentale impegnato sul fronte afgano, Italia compresa. Solo il medico, il dottor William Brydon, arrivò alla guarnigione di Jalalabad ferito alla testa, miracolosamente protetto da un giornale infilato sotto il cappello, sul cavallo di un soldato moribondo, coinvolto in ripetuti attacchi, ridotto a difendersi con solo mezza spada fino alla guarnigione inglese, dove il cavallo ferito subito perse anche le ultime energie. Rambo era già nato. Altri otto protagonisti della tragica ritirata erano riusciti a salvarsi lungo la strada. Forse in quella cronaca ci sono abbellimenti letterari, e la perfidia afgana è esaltata più della ferocia, ma il numero dei morti è quello.
Nella guerra dell’Armata rossa, conclusa dopo dieci anni nel 1989, si contavano circa 15mila vittime. Gli aerei che riportavano i morti a casa in gergo venivano indicati Cargo 200, una sigla commerciale, per non dare pubblicità a quelle bare. E in quella degli Stati Uniti appena conclusa, dopo venti anni, i morti sono meno di 2.500. Mentre il bilancio delle vittime afgane in questa ultima impresa ne conta decine di migliaia. Il bilancio di queste due ultime guerre deve essere misurato in altro modo, non solo con questi numeri.
In una notte di pochi giorni fa l’immagine del generale Chris Donahue era diventata una sagoma confusa, verdastra, dentro uno sfondo nero, disegnata da un visore notturno. Era l’ultimo soldato americano a lasciare l’Afghanistan. Quasi l’immagine proveniente da un mondo marino profondo, in un paese che non conosce il mare. Attorno al generale non c’erano riflettori accesi, né fanfare e bandiere. È stato un decollo in extremis. La data della partenza negli accordi di Doha era stata fissata entro il primo maggio, poi prolungata simbolicamente all’11 settembre e quindi retrocessa al 31 agosto.
Attorno al generale velivoli e mezzi militari abbandonati. E sempre la notte aveva accompagnato giorni prima la frettolosa partenza americana dalla grande base aerea di Bagram, un gioiello strategico dell’Asia centrale, rimasta improvvisamente a luci spente. Una lista di centinaia di pagine consegnate all’ormai traballante governo afgano faceva l’inventario puntiglioso di tutto il materiale che rimaneva là dentro. Un bottino di guerra recuperato poco dopo dai Talebani senza bisogno di combattere, ma prima ancora dai saccheggiatori locali. Una fuga al buio.
C’era invece il sole nel febbraio del 1989 quando in pieno giorno il generale Boris Gromov, comandante del corpo di spedizione sovietico in Afghanistan attraversava a piedi, accompagnato da suo figlio, il ponte di ferro sul fiume Amu Darya. Sull’altra riva lo accoglieva la grande madre Russia. Era l’ultimo soldato sovietico a lasciare Kabul. Gromov fu accolto da musiche, da tavole allestite e innaffiate con abbondanza, e da belle ragazze in abiti tradizionali.
Quel giorno assistevo come a una festa bucolica. I fotografi della agenzia Tass scattavano le loro tipiche foto, mettendo prima in posa adulti e bambini che dovevano essere sempre decisamente sorridenti. Non incombevano attentatori spietati verso i civili, non c’erano decine di migliaia di afgani ammassati li attorno per fuggire dal paese soltanto dentro gli aerei di paesi stranieri. E l’Armata rossa per non essere attaccata e umiliata nelle ultime ore della ritirata aveva pagato preventivamente la guerriglia. Era un gracile segreto noto almeno da una settimana. Quel giorno tra le steppe dell’Asia c’era un richiamo al mare lontanissimo, nelle maglie a righe bianche e blu dei soldati di Mosca, simili a quelle dei marinai.
Tra la partenza di Gromov e quella di Donahue passa proprio la differenza che esiste tra il giorno e la notte. C’è un punto in comune tra le due spedizioni, entrambi erano arrivati portandosi dietro i loro alleati, rispettivamente quelli del Patto di Varsavia e quelli della Nato.
Ma alla partenza dei sovietici l’aeroporto aveva continuato a funzionare e atterravano senza ostacoli dei giganteschi Antonov con la livrea bianca e azzurra dell’Aeroflot integrati da una cupolina trasparente da cui spuntava una mitragliatrice per completare il trasloco verso casa. I mujaheddin, i guerriglieri che li avevano sconfitti, presero Kabul solo tre anni dopo, sparando in aria come si fa da quelle parti quando si deve festeggiare. Ma non ci fu nulla di paragonabile alla calca furibonda, disumana di queste settimane per raggiungere e poi sopravvivere dentro l’aeroporto. Certo il ponte aereo degli occidentali ha messo in salvo oltre 100mila persone. Ma il tracollo del potere è stato fulmineo. E i Talebani si sono trovati subito di traverso le bombe di altri “combattenti” islamici più brutali di loro.
La Colonna del sapere e dell’ignoranza ammonisce.
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