- In uno dei crocevia più strategici dell’Africa postcoloniale, il conflitto non si nutre ancora di scontri armati, ma di carte geografiche, compassi e righelli, strumenti preziosi quando si tratta di discutere su come dividere l’oceano.
- Ora senza sprecare un proiettile di kalashnikov la Somalia sta ottenendo ciò che molti governi sognerebbero di poter fare: modificare la mappa geografica di un continente, con un vistoso allargamento dei propri confini a danno dei paesi vicini. E il tutto con la benedizione dell’Onu.
- Il sogno somalo della Grande Somalia e le rivendicazioni post-coloniali non sono mai venute meno.
Premessa: se leggendo i giornali avete l’impressione che la Somalia sia una nazione in fallimento, un governo in ginocchio, una società che eccelle solo nel numero di bombe esplose nella capitale, dovete cambiare giornale.
La Somalia – anche se guida tutte le classifiche mondiali su povertà e pericolosità – dietro le quinte è capace di successi sorprendenti.
Non solo ha creato icone come Mo Farrah nello sport e Iman nella moda, ha gettato le basi di un geniale sistema alternativo a quello bancario per trasferire e ricevere denaro via telefonino, usato da 42 milioni di persone (si chiama m-pesa), non solo ha sconfitto alcuni degli eserciti più forti del mondo (per restare in tempi recenti, quello etiope in 766 giorni, quello americano in soli 149 giorni), ma ora senza sprecare un proiettile di kalashnikov sta ottenendo ciò che molti governi sognerebbero di poter fare: modificare la mappa geografica di un continente, con un vistoso allargamento dei propri confini a danno dei paesi vicini. E il tutto con la benedizione dell’Onu.
Confini
Andando per ordine: guardando la carta geografica qui sopra si vede che la “povera” Somalia confina con il ricco, moderno, occidentale Kenya. Li accomunano 684 chilometri lungo i quali succede di tutto: campi profughi con mezzo milione di disperati, terroristi che attaccano, rapinano e rapiscono su entrambi i lati del confine, truppe speciali anglo-americane che infiltrano sperando di fermare gli islamici di Al Shebaab, reggimenti kenioti chiusi in guarnigioni sempre sotto assedio, tribù nomadiche armate che non riconoscono alcuna legge se non quella della sopravvivenza.
Ma quello che davvero conta non è il sabbioso e spinoso confine di terra, ma quello liscio e bagnato dell’oceano. O meglio quello che conta è la dimensione della cosiddetta zona economica esclusiva, che si protende per 200 miglia al largo del confine di terra.
In palio ci sono 100mila chilometri quadrati di mare, ricchi di gas, petrolio e pesca, dove tra l’altro il Kenya ha già assegnato tre blocchi petroliferi all’Eni. Dettaglio importante: il triangolo conteso si trova al largo di Lamu, antico porto storicamente legato come Zanzibar all’«impero dei monsoni» dell’Oman, ora rinato come hub del corridoio Lapsset, la nuova rete transnazionale di trasporto petrolifero in via di costruzione (al costo di 48 miliardi di dollari) che collegherà il porto keniano con Sud Sudan e Etiopia. La raffineria lavorerà 120 mila barili di greggio al giorno e avrà un moderno terminal portuale per facilitare il trasporto marittimo. Proprio nella zona contesa con la Somalia sono progettati tre terminal marittimi in acque profonde: uno porterà il greggio da Juba, in Sud Sudan, un altro fornirà petrolio raffinato al mercato etiope e il terzo raggiungerà Mombasa per collegarsi con l’oleodotto che arriva a Kampala, in Uganda.
Insomma, uno dei crocevia più strategici dell’Africa postcoloniale.
Questo conflitto non si nutre ancora di scontri armati, ma di carte geografiche, compassi e righelli, strumenti preziosi quando si tratta di discutere su come dividere l’oceano: il Kenya sostiene che (come accade per le altre nazioni africane vicine) il confine dovrebbe percorrere una svolta di circa 45 gradi alla linea di costa ed estendersi in una linea latitudinale. La Somalia invece sostiene che quello che accade altrove non importa, la linea di confine corretta è quella “equidistante”, estesa nella stessa direzione del percorso sud-est della costa del paese.
Il paradosso della costiera
Le dispute marittime sono faccende complicate e in genere gestite da avvocati specializzati che emettono parcelle di tutto rispetto a clienti che pagano prontamente: i governi. In questo momento, per esempio, a litigare sono Nicaragua contro Colombia, Cile contro Bolivia, Guatemala contro Belize, in genere sulla sovranità di oscure isole. Tra Somalia e Kenya, invece, è in gioco una questione fondamentale di geometria geografica oceanica che riguarda molti altri paesi e che quindi tutte le cancellerie stanno seguendo con ansia.
Ai comuni mortali viene da chiedersi: ma non basterebbe tirare una riga (perpendicolare) dal punto di confine Kenya-Somalia per avere la linea giusta che divide l’oceano? No, perchè stabilire cosa è perpendicolare, ed esattamente da dove, è fonte di mille problemi, che gli studiosi di litigi marittimi chiamano “il paradosso della costiera”. D’accordo, ma non esistono trattati e convenzioni internazionali che dovrebbero aver risolto questi problemi da tempo immemorabile? Sì e no, le leggi sono chiare per i primi 12 miglia di cosiddetto “mare territoriale”, ma secondo molti studiosi sono più vaghe (volutamente?) circa le altre 182 di zona economica esclusiva, per non parlare della ancor più distante piattaforma continentale.
Queste dispute vengono di solito risolte con negoziati bilaterali. Solo quando gli ambasciatori falliscono, si va dai giudici. I procedimenti legali avvengono davanti alla Corte Internazionale di giustizia, il più alto tribunale delle Nazioni Unite. E all’Aja in genere ragionano in modo conservatore, spesso proteggendo lo status quo. Quando si tratta di mari, i giudici possono applicare la linea equidistante semplificata, la linea equidistante aggiustata o altri metodi geometrici. Ma di solito non perdono di vista il concetto che se si cambia il confine marittimo di una nazione che si affaccia su un grande oceano, si crea un precedente che può costringere a farlo per molte altre.
La grande Somalia
Così, Kenya e Somalia duellano all’Aja da molti anni, ma la sorpresa è che finora l’Aja ha dato ragione alla Somalia tanto che il Kenya si è persino ritirato dalla Corte dell’Aja e ha abbandonato il procedimento giudiziario, che ritiene scorretto e pericoloso per la stabilità della regione. Quindi la domanda è: ma come è possibile che una nazione che nei tribunali della storia spesso siede sul banco degli imputati, che fa fatica ad avere un governo, a finanziare la propria rete diplomatica e forse anche a pagare le parcelle degli avvocati, come fa a trionfare su una vicenda che oltre al Kenya – bastione di ragionevolezza della regione – coinvolge anche big come Stati Uniti e Cina (grande promotrice del corridoio Lappset? Forse aiuta il fatto che la Corte dell’Aja è stata presieduta fino a poche settimane fa da un giudice che guarda caso è somalo e che negli anni Settanta era stato membro della delegazione somala alla Convenzione internazionale sul mare, lo stimato 72enne Abdulqawi Ahmed Yusuf. Forse aiuta anche il fatto che l’Eni non teme l’esito, perchè se ha un ottimo rapporto con il Kenya, ne ha uno altrettanto buono con la Somalia del presidente Mohamed Abdullahi Mohamed, meglio conosciuto come Formaggio. O forse aiuta che la Somalia ha una pellaccia dura come pochi altri paesi e che da classico Davide riesce a punire Golia.
Così una ripicca tira l’altra: dal 2011 il Kenya ha il proprio esercito nel sud della Somalia in funzione anti-terrorismo ma ora la Somalia chiede il suo ritiro; prima il Kenya richiama il proprio ambasciatore da Mogadiscio, poi Mogadiscio espelle tutti i diplomatici kenioti, poi promettono di riaprire le rispettive ambasciate; prima la Somalia sostiene che la regione del Jubaland di Ahmed Madobe è uno stato-fantoccio del Kenya, poi il Kenya ordina la chiusura dei campi profughi di Dadaab dove sono ospitati 500mila somali; prima il Kenya impone ai propri cittadini di etnia somala di ottenere un visto d’uscita quando si recano in Somalia (prima ne erano esenti), poi la Somalia blocca l’export keniota di khat, le foglie di stimolante che rappresentano un business importante per gli agricoltori kenioti. Prima Il Kenya ospita una visita del “presidente” del Somaliland trattandolo come un capo di stato, Poi Mogadiscio protesta che il Somaliland è solo una provincia secessionista senza diritto ad alcuna sovranità. Infine il ritornello del Kenya: «La Somalia è ingrata, con tutto quello che abbiamo fatto per i suoi profughi per molti anni». Per spiegare il tutto occorre di nuovo guardare a una carta: quella della grande Somalia, una carta geografica che non appare negli atlanti ufficiali, ma è scolpita nel subconscio somalo. È molto più ampia della Somalia come la conosciamo oggi, comprende altri vasti territori: il nord del Kenya (dove vivono tre milioni di somali), l’Ogaden etiope, Gibuti e molti altri luoghi che la storia ha assegnato ad altri paesi, con quello che la Somalia ha sempre considerate un tradimento storico (soprattutto da parte inglese). La Somalia non ha mai davvero rinunciato a rivendicarli e il sogno nazional-espansionistico, sia in mare sia in terra, è una dei pochi fattori che uniscono i clan e i signori della guerra di questa straordinaria ma complicata nazione. La lite tra Kenya e Somalia sta tutta lì, nel conflitto tra carte: quella che è, quella che avrebbe potuto essere, e quella che forse si può ridisegnare. Per vendicare il passato.
© Riproduzione riservata