Senegal, Gambia, Guinea Bissau, Niger, Burkina Faso e Sierra Leone. Il tour africano del generale degli Emirati Arabi Uniti Ahmed Nasser Al Raisi è giunto al termine. Tra gli uomini più importanti dell’apparato poliziesco del piccolo stato del golfo Persico, Al Raisi punta alla carica di presidente dell’Interpol (la scelta verrà fatta nei prossimi mesi). Durante il suo viaggio nei nove stati africani ha incontrato presidenti, ministri e uomini dei servizi segreti con l’obiettivo di discutere di cooperazione poliziesca e costruire una fitta rete di relazioni per ottenere i voti necessari a essere eletto a capo dell’organizzazione internazionale della polizia criminale.

Il generale Al Raisi ha un curriculum singolare: è entrato a far parte delle forze di polizia di Abu Dhabi nel 1980 e ha scalato le gerarchie fino a occupare la posizione di Ispettore generale del ministero dell’Interno nel 2015, diventando uno degli uomini più importanti della sicurezza interna emiratina. Nel 2018 è diventato membro del Comitato esecutivo dell’Interpol ricoprendo la posizione di delegato per l’Asia e ora punta a succedere all’attuale presidente, il sudcoreano Kim Jong-Yang.

L’appello

Sulla candidatura di Al Raisi molte ong, tra cui l’Organizzazione mondiale contro la tortura, hanno espresso preoccupazione e hanno firmato un appello per chiedere che non diventi presidente. A giugno il Gulf Centre for Human Rights (Gchr) ha presentato una denuncia in un tribunale parigino proprio contro il generale Al Raisi con l’accusa di essere il responsabile di «torture e atti barbarici» nei confronti di Ahmed Mansoor, il noto dissidente politico detenuto da quattro anni in un carcere di Abu Dhabi. Mansoor è stato arrestato nel 2017 e condannato a 10 anni di prigione per aver macchiato l’immagine del paese con dei post pubblicati sui social media. Secondo il Gchr Mansoor è detenuto in «condizioni medievali» e «senza accesso a un medico, all’acqua e ai servizi igienici». Ma questo non è l’unico caso. Il ricercatore britannico Matthew Hedges ha accusato Al Raisi di aver assistito alle torture subite durante i nove mesi passati in custodia negli Emirati. Hedges si era recato nel paese arabo per completare la ricerca della sua tesi universitaria ma è stato arrestato all’aeroporto di Dubai e accusato di svolgere attività di spionaggio per conto del governo britannico.

Repressione dei diritti umani, trattamenti degradanti, sorveglianza e controllo sono i tratti distintivi degli apparati di sicurezza degli Emirati Arabi Uniti. A rimarcarlo è anche la recente inchiesta giornalistica sul software Pegasus che ha coinvolto tra gli altri Ungheria, Ruanda, Marocco e, per l’appunto, gli Emirati Arabi Uniti. Questi stati avrebbero usato il software spia israeliano, prodotto dalla Nso group, per sorvegliare gli smartphone di giornalisti, imprenditori, avvocati e personaggi non graditi ai governi.

Ad aprile un gruppo di parlamentari europei ha presentato un’interrogazione all’Alto rappresentante dell’Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza esprimendo la propria preoccupazione riguardo a una possibile presidenza emiratina dell’Interpol. La risposta di Joseph Borrel è arrivata il 2 luglio ed è stata categorica: «L’Ue non è membro dell’Interpol e di conseguenza né la Commissione né le altre istituzioni europee hanno la capacità di intervenire nelle elezioni della sua presidenza».

Se all’estero il generale arabo viene criticato dalle organizzazioni che si battono per difesa dei diritti umani, in Italia Al Raisi ha ricevuto una prestigiosa onorificenza della Repubblica. Nel 2018, infatti, il Quirinale gli ha consegnato la medaglia di Commendatore dell’ordine della stella d’Italia che viene concessa dal capo dello stato su proposta del ministro degli Affari esteri dopo aver sentito il Consiglio dell’ordine. Con la medaglia, si legge sul sito del Quirinale, «si vuole ricompensare quanti abbiano acquisito particolari benemerenze nella promozione dei rapporti di amicizia e di collaborazione tra l’Italia e gli altri paesi e nella promozione dei legami con l’Italia».

La strategia

Un rapporto pubblicato ad aprile da David Calvert-Smith, ex giudice dell’Alta corte di giustizia del Regno Unito, e scritto insieme all’International Human Rights Advisors ha portato alla luce alcune strategie adottate dagli Emirati Arabi Uniti sia per influenzare la governance dell’Interpol sia per usare i mezzi dell’agenzia di sicurezza per perseguire le proprie politiche repressive interne. Infatti, secondo il rapporto, gli Emirati Arabi Uniti così come altri stati tra cui la Russia, usano in maniera spropositata le cosiddette red notice, ovvero gli avvisi di richiesta di arresto che possono essere emanati ed eseguiti dai 194 stati membri dell’Interpol. Si tratta di una sorta di richiesta di estradizione non vincolante che gli altri paesi possono eseguire nel momento in cui un cittadino inserito in una red notice venga fermato e identificato durante un posto di blocco o in altre occasioni.

Negli anni i vari stati, soprattutto i più autoritari, hanno fatto sempre più ricorso a questo sistema con l’intento di arrestare ed estradare oppositori politici. Non è un caso se spesso le red notice degli Emirati Arabi Uniti vengono rimosse in seguito a verifiche e controlli più approfonditi da parte dell’Interpol. A confermarlo è anche Michelle Estlund, avvocato specializzato nella difesa di chi è destinatario di misure restrittive emanate dall’Interpol, che a Foreign Policy ha spiegato come il paese usi l’Interpol quasi fosse un’agenzia privata di recupero crediti internazionale.

Finanziamenti

Nel rapporto dell’ex giudice inglese Calvert-Smith è presente anche un focus sulle donazioni economiche che gli Emirati hanno effettuato a favore dell’Interpol. Ogni anno il paese paga circa 230mila dollari (il budget complessivo dell’Interpol nel 2020 è stato di circa 136 milioni di euro diviso tra tutti gli stati membri che, come deciso dalle Nazioni unite, contribuiscono con una quota fissa e una volontaria). È una cifra che non salta all’occhio a differenza della cospicua donazione di 50 milioni di euro eseguita nel 2017 all’Interpol foundation for a safer world. L’obiettivo della fondazione è quello di «coinvolgere i governi e le aziende per sostenere il lavoro di Interpol nella costruzione di un mondo più sicuro» incentrandosi su quattro assi fondamentali: terrorismo, crimine organizzato, capacità della polizia e stati fragili. Ma la donazione emiratina è stata vista da altri stati membri come un tentativo di influenzare le politiche interne dell’agenzia internazionale.

L’elezione

Analisti ed esperti del settore evidenziano varie criticità attorno al sistema di elezione presidenziale dell’Interpol. Tra queste c’è la mancata conoscenza dei nomi dei candidati che non vengono resi pubblici prima del voto deciso dell’Assemblea. Questo impedisce alla stampa e a esponenti della società civile di analizzare i vari profili prima di una loro eventuale elezione. Negli anni sono stati diversi i presidenti dell’Interpol che sono stati arrestati per corruzione o reati simili. L’attuale presidente Kim Jong-Yang, nel 2018, è subentrato a metà mandato a Meng Hongwei, ex viceministro della Pubblica sicurezza in Cina per oltre dieci anni. Hongwei è stato arrestato con l’accusa di aver ricevuto una tangente di oltre 2 milioni di dollari e condannato a gennaio del 2020 a circa 13 anni di prigione. Sorte simile è toccata a un altro ex presidente dell’Interpol: il sudafricano Jackie Selebi, accusato di aver ricevuto circa 150mila dollari da un trafficante di droga e per questo condannato a 15 anni di prigione nel 2010. Tra pochi mesi conosceremo il prossimo presidente dell’Interpol e il generale Al Raisi crede veramente di potercela fare. È tornato dal suo tour africano con nove possibili voti in più, ne mancano ancora tanti, ma le organizzazioni che si battono per la difesa dei diritti umani cominciano a temere che la sua elezione a capo dell’agenzia di sicurezza internazionale non sia più solo un’ipotesi.

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