- Esattamente dieci anni fa, nella notte tra il primo e il 2 maggio 2011, le forze speciali americane del Navy Seal Team Six facevano irruzione nel compound di Abbottabad, in Pakistan, dove si nascondeva Osama bin Laden.
- L’amministrazione Biden ha annunciato il ritiro dall’Afghanistan entro l’11 settembre, già cominciato dall’Italia, ma i talebani sono pronti a riprendersi il paese e offrono ancora protezione ai capi di al Qaeda.
- Con il ritiro della Nato, il gruppo jihadista potrebbe consolidare un santuario, reclutare militanti e organizzare nuovi attacchi in occidente. Non si dovrebbe ripetere l’errore di considerare concluso il fenomeno del terrorismo islamista, come si è fatto dopo quel raid ad Abbottabad dieci anni fa.
Esattamente dieci anni fa, nella notte tra il primo e il 2 maggio 2011, le forze speciali americane del Navy Seal Team Six facevano irruzione nel compound di Abbottabad, in Pakistan, dove si nascondeva Osama bin Laden. In questo anniversario comincia anche il ritiro delle truppe italiane dall’Afghanistan. Nell’operazione “Lancia di Nettuno”, durata 38 minuti, oltre al capo di al Qaeda sono stati uccisi suo figlio ventiduenne Khalid, il corriere pakistano Ibrahim, noto come Abu Ahmed al Kuwaiti, suo fratello Abrar e la moglie Bushra. Altre diciassette persone, tra donne e bambini, si trovavano nella casa, comprese tre delle quattro mogli di bin Laden: Khairiah, Seham e Amal.
È stato proprio Ibrahim a condurre involontariamente la Cia nel rifugio di Abbottabad. Era diventato il corriere più fidato e factotum dello sceicco saudita, ma nell’agosto 2010 il suo cellulare è stato intercettato dall’intelligence. La sua auto è stata seguita dai satelliti sino all’edificio conosciuto come “palazzo Waziristan”, perché si era sparsa la voce che ospitasse un capo tribale di quella regione scappato per una faida. Effettivamente la casa era insolita per la tranquilla città di Abbottabad: muri alti 5 metri con filo spinato, tre piani con finestre oscurate, si trovava ad appena un chilometro dall’accademia militare pakistana. Eppure per sei anni nessuno ha sospettato che lì vivesse bin Laden, neanche dopo l’arresto fortuito a gennaio 2011 del jihadista indonesiano Umar Patek, tra i responsabili della strage di Bali nel 2002, che si nascondeva ad Abbottabad grazie ad al Qaeda.
Pochi sanno che bin Laden ha viaggiato in lungo e in largo per il Pakistan nel suo decennio di latitanza. L’11 dicembre 2001 era stretto d’assedio sulle montagne di Tora Bora insieme ad alcune centinaia di irriducibili tra cui il progenitore dell’Isis, Abu Musab al Zarqawi. Gli arabi erano in trappola, martellati dai bombardamenti, circondati sul lato afgano del confine dalla Delta Force americana e su quello pakistano dall’esercito di Islamabad. Tuttavia, il 12 dicembre al Qaeda ha chiesto una tregua per negoziare la resa, il giorno dopo le truppe pakistane sono state trasferite alla frontiera indiana e i jihadisti superstiti ne hanno approfittato per darsi alla fuga. Osama si è rifugiato a Jalalabad, sotto la protezione dei talebani, per poi spostarsi a cavallo nella valle del Kunar, dove è stato nascosto dai signori della guerra in un fortino abbandonato tra le cime innevate. Alcuni membri di al Qaeda, tra cui Ayman al Zawahiri, sono riusciti a disperdersi nelle zone tribali del Pakistan. Altri si sono riparati in Iran sotto la protezione-prigionia dei Guardiani della rivoluzione, come asset strategico da usare contro gli Usa.
Nel gennaio 2002 bin Laden è riuscito a mandare parte della sua famiglia a Karachi, per poi arrivare anch’egli in incognito dall’Afghanistan, grazie alla rete del pakistano Khalid Sheikh Mohammed, la mente dell’11 settembre. Ma la città portuale all’estremo sud del paese non era sicura, perciò a luglio bin Laden si è riunito con la moglie Amal a Peshawar e ha viaggiato con lei verso nord, nel remoto villaggio di Kutkey sulle rive dell’Indo, nel distretto di Shangla. Il tragitto è stato percorso su un minibus, in compagnia di un uomo vestito da poliziotto, ma non è chiaro se fosse un fiancheggiatore infiltrato o un jihadista camuffato per evitare imprevisti.
La malattia
Bin Laden era ammalato ai reni e aveva difficoltà a ottenere cure in quell’area rurale, sulle colline terrazzate di una valle sperduta. Ibrahim è diventato il suo corriere e unico contatto con il mondo esterno. Un giorno il saudita annoiato ha chiesto di essere portato in un bazar, ma il furgoncino è stato fermato dalla polizia per eccesso di velocità. L’agente ha chiesto i documenti e Ibrahim lo ha corrotto con un rotolo di banconote, mentre Osama si nascondeva sotto uno scialle sul retro. Queste testimonianze ci sono arrivate grazie ad Amal, la giovane moglie yemenita dello sceicco. Ibrahim, sotto pressione per la situazione, ha chiesto aiuto alla famiglia che ha inviato il fratello Abrar con la moglie Bushra. Nel villaggio di Kutkey è stato in visita per due settimane anche Khalid Sheikh Mohammed, è stato l’ultimo incontro con bin Laden prima della sua cattura.
A marzo 2003 bin Laden è stato trasferito nella città di Haripur. L’anno seguente Abrar si è recato nella vicina Abbottabad, dove ha comprato un terreno per farvi costruire il compound in cui hanno traslocato tutti a fine agosto 2005. Questi spostamenti sono stati ricostruiti da premi Pulitzer e giornalisti investigativi come Steve Coll, Cathy Scott-Clark e Adrian Levy. I fuggiaschi hanno trascorso sei anni nell’insospettabile città dell’accademia militare pakistana. A ottobre un forte terremoto ha colpito la regione, così Osama si è tagliato la barba e ha approfittato del caos per viaggiare nelle aree tribali e incontrare Fazlur Rehman Khalil, il capo del gruppo jihadista Harkat-ul-Mujahideen.
Khalil faceva da intermediario con il generale Hamid Gul, ex direttore dell’Isi, i temuti servizi segreti pakistani. Gul manovrava nell’ombra il Direttorato S, una sezione deviata dell’Isi che usava i jihadisti locali contro l’India e per uccidere personalità scomode. Bin Laden è uscito da Abbottabad almeno tre volte fra il 2008 e il 2010 e ha incontrato rispettivamente i capi terroristi di Lashkar-e-Taiba, Harkat-ul-Jihad al-Islami e Tehrik-i-Taliban Pakistan. Gruppi che al lettore medio dicono poco, ma che hanno avuto un ruolo fondamentale nel proteggere al Qaeda e pianificare attentati da Barcellona al nord Europa. Lo sceicco viaggiava la notte lungo strade secondarie, spesso di venerdì, giorno festivo in cui molti posti di blocco erano smobilitati.
La rete nei territori tribali
Ibrahim e Abrar, i fratelli pakistani divenuti custodi di Osama, erano sull’orlo di una crisi nervosa, il primo con un tumore e il secondo affetto da depressione, così hanno dato un ultimatum a bin Laden per trovare nuovi assistenti e lasciare la casa entro il 2011. Il saudita era quindi in una situazione estremamente precaria, ciononostante continuava a far arrivare parenti nel compound, che ormai era spiato della Cia. Infatti, il 12 febbraio 2011 la moglie Kairiah, psicologa infantile, si è unita alle altre due già presenti, ma al Qaeda l’ha fatta prima esaminare da medici e dentisti nella paranoia che i servizi iraniani le avessero impiantato un dispositivo di tracciamento sottocutaneo o nei denti. A pochi giorni dal raid, anche il figlio Hamzah avrebbe visitato brevemente il padre e la madre ad Abbottabad.
Con il materiale recuperato dagli americani nella casa è stata ricostruita la rete di bin Laden nei territori tribali (che dal 2018 hanno perso lo status speciale di Federally Administered Tribal Areas e sono stati inglobati in una provincia pakistana). Così molti suoi luogotenenti sono stati annichiliti dai droni, solo Hamzah e il vice al Zawahiri sono riusciti a salvarsi in Waziristan, mentre i superstiti di al Qaeda sono rimasti “prigionieri” del generale Qassem Suleimani in Iran. L’Isi pakistana non conosceva il rifugio di bin Laden, ma è probabile che il Direttorato S sapesse di più. D’altra parte, secondo una versione, l’intelligence pakistana avrebbe dato rifugio anche al mullah Omar malato a Karachi, oltre a ospitare i vertici talebani a Quetta. Erano strumenti di influenza del Pakistan sull’Afghanistan.
La guida di al Zawahiri
Sotto la guida di Ayman al Zawahiri, al Qaeda ha perso il controllo del gruppo iracheno fondato dal giordano al Zarqawi, che è diventato Stato Islamico dell’Iraq e più tardi Isis. Anche in Siria i lealisti di al Nusra, inizialmente hanno detto no allo scisma da al Qaeda, ma in seguito hanno preso le distanze e hanno formato una nuova coalizione islamista guidata da al Julani. Se Hamzah bin Laden è riuscito a nascondersi per anni nei territori tribali, nel 2019 gli Stati Uniti hanno confermato di averlo eliminato con un drone. Il 7 agosto 2020, invece, la sua vedova è stata uccisa da sicari israeliani a Teheran, insieme al padre Abu Muhammad al Masri, anche lui nella linea di successione di al Qaeda. Paradossalmente pochi mesi prima la stessa sorte era toccata al suo “carceriere”, il generale Suleimani, ucciso da un drone americano a Baghdad.
Il resto della famiglia bin Laden, abbandonata la causa jihadista, oggi vive tra l’Arabia Saudita e il Qatar dedicandosi agli affari. Gli esperti si chiedono quale possa essere il futuro dell’organizzazione fondata da Osama, dopo le voci sulla presunta morte di al Zawahiri. Pur mancando del carisma del suo predecessore, il medico egiziano è stato comunque in grado di mantenere la lealtà di vari gruppi durante l’ascesa dell’Isis. Al Qaeda può contare su almeno otto affiliati dalla Somalia al Sahel, nel subcontinente indiano e nel Caucaso, ma anche in Siria con Hurras ad-Din. La difficoltà di al Zawahiri nel comunicare dalla regione Af-Pak è stata mitigata dal cosiddetto “comitato Hittin”, un gruppo di veterani attivo in Iran, che funge da intermediario con le filiali. È interessante notare che il consiglio della shura resti ancora a maggioranza egiziana.
Tra di loro c’è Saif al Adl, l’ultimo della vecchia guardia che potrebbe succedere ad al Zawahiri. Per anni si è creduto che al Adl fosse un ex colonnello egiziano delle forze speciali chiamato Mohammed Ibrahim Makkawi. In realtà l’ex agente speciale dell’Fbi Ali Soufan ha rivelato che dietro l’alias Saif al Adl si cela Mohammed Salahuddin Zeidan, un giovane egiziano reclutato durante un pellegrinaggio alla Mecca nel 1987 per combattere i sovietici in Afghanistan. Zeidan ha fetto credere alla sua famiglia in Egitto di essere morto in un incidente d’auto in Arabia Saudita, mentre è diventato un emiro di al Qaeda attivo dalla Somalia allo Yemen. Si ritiene che anche lui operi dall’Iran con il beneplacito dei Guardiani della Rivoluzione.
Ritorno a casa
L’amministrazione Biden ha annunciato il ritiro dall’Afghanistan entro l’11 settembre, già cominciato oggi dall’Italia, ma i talebani sono pronti a riprendersi il paese e offrono ancora protezione ai capi di al Qaeda. L’ultimo attentato rivendicato dall’organizzazione in Europa risale al 2015, contro la redazione di Charlie Hebdo. Dal 2009 a oggi al Qaeda, con i suoi partner pachistani, ha aiutato a pianificare almeno 21 attentati in Europa, poi è stata eclissata dall’Isis e tenuta sotto pressione dai droni in Afghanistan. Con il ritiro della Nato, il gruppo jihadista potrebbe consolidare un santuario, reclutare militanti e organizzare nuovi attacchi in occidente. Non si dovrebbe ripetere l’errore di considerare concluso il fenomeno del terrorismo islamista, come si è fatto dopo quel raid ad Abbottabad dieci anni fa.
Matteo Pugliese è ricercatore associato dell’Ispi di Milano. Esperto di sicurezza internazionale ed estremismo, svolge un dottorato di ricerca all’Università di Barcellona su intelligence e antiterrorismo. All’Osce si è occupato di prevenzione della radicalizzazione giovanile.
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