Dato che il museo nazionale di storia e cultura afroamericana (di Washington, ndr) non vuole – e nemmeno può – riportare in vita le storie di milioni di afroamericani, schiavi e liberi, è compito nostro – non solo mio, non solo dei miei ospiti di stasera, ma di tutti noi esseri viventi – far sì che quei nomi e quelle storie restino sulle nostre labbra. Dobbiamo capire che quelle poche storie raccontate ai piani inferiori rappresentano le tante altre che non ci sono. A mio modo, sto cercando di fare lo stesso attraverso la cucina. Mantenere in vita le loro storie. Stasera sto usando i talli d’aglio (o allium, che è il nome della famiglia botanica delle cipolle), quelli di cui mi ha chiesto Jong, come guarnizione per un gumbo rivisitato, che serviremo come seconda portata. Rappresentano un terzo della “santissima trinità”, la mirepoix di sedano, peperoni e cipolle che costituisce la base di buona parte della cucina creola. Questi sono i sapori con cui sono cresciuto. Questi sono i sapori e i profumi con cui è cresciuta mia madre, Jewel Robinson. Suo padre Bertran, creolo, era ormai un vecchio signore con la pelle ramata e la voce profonda il giorno in cui l’ho incontrato nella cambusa di un’imbarcazione sul Mississippi, ma lei ha riempito la nostra cucina nel Bronx con le sue ricette. Il gumbo mi ha accompagnato mentre crescevo.

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Quando d’estate ero seduto sulla scala antincendio fuori dal nostro appartamento, il suo aroma si diffondeva attraverso la finestra della cucina. Il suo sapore mi accoglieva quando fuori era freddo e le finestre erano chiuse, con il riscaldamento al minimo per risparmiare qualche dollaro. Era ciò con cui erano cresciuti gli operai stremati delle squadre di bonifica per cui ho cucinato dopo il disastro della Deepwater Horizon, lo stesso aroma che ho evocato nella cambusa di una nave nel mezzo del Golfo del Messico e che per un momento li ha fatti tornare nelle loro cucine a centinaia di chilometri di distanza.

Adesso lo sto impreziosendo con ingredienti ricercati e altre amenità, cercando però di conservarne intatto lo spirito originario. Il gumbo ha un’ossatura forte. Questi talli d’aglio, il cui sapore è più delicato di quello delle cipolle più comuni, vengono posati in cima a una versione di gumbo realizzata con un ricco brodo di crostacei che verrà versato al tavolo su un’aragosta dal guscio morbido, due bocconi di granchio reale, e una quenelle di caviale Oscietra.

Sebbene passino attraverso il filtro dell’alta cucina e di una tecnica complessa, i sapori – una ricca essenza di frutti di mare avvolta in un roux setoso – sarebbero immediatamente riconoscibili per qualsiasi abitante della Louisiana del sud, in particolare per un nero proveniente da questo stato.

Il gumbo e gli schiavi

FOTO DI STORM SANTOS

Nella sua versione essenziale, il gumbo è arrivato poco dopo il 1720, inciso nel gusto e nella memoria innata degli schiavi dell’Africa occidentale. La parola gumbo deriva dal termine nella lingua twi della Costa d’Oro ki ngombo, che significa “okra” (anch’essa una parola in igbo, la lingua di mio nonno e mio padre). Era un alimento basilare diffuso in tutta l’Africa occidentale, dal Benin al Ghana fino alla Nigeria.

Strappati dal loro paese d’origine e impiantati in uno nuovo, questi schiavi hanno cercato qualcosa che fosse per loro familiare nei campi della Louisiana. In capanne simili a quella riassemblata qui nei piani inferiori, questi schiavi mangiavano il loro ki ngombo insieme al riso, un altro alimento basilare della loro terra natìa. Mentre l’okra dava allo stufato una consistenza morbida, i chicchi di riso gli davano corpo. Questa è l’origine del piatto che conosciamo come gumbo.

Piatto rubato

Come il lavoro rubato, questo stufato è diventato parte della cultura del sud degli Stati Uniti, le cui origini si reggono sulla corrotta impalcatura della schiavitù. Nulla di ciò che è diventato cancella questo dato di fatto, sebbene il piatto non abbia mai smesso di evolversi. Quando i tedeschi arrivarono in Louisiana, aggiunsero le loro tradizionali salsicce speziate.

Quando gli spagnoli presero il loro posto alla fine del diciottesimo secolo, introdussero il loro famoso jamón, dandogli un tocco di carnosità salata. E quando il governo spagnolo vi spedì i pescatori dalle isole Canarie alla fine del Settecento, furono aggiunti gamberi e granchi del Golfo del Messico, e il gumbo di frutti di mare, il mio preferito, divenne comunemente diffuso.

Il gumbo che sto preparando stasera direi che è assurdamente stravagante. Il brodo di crostacei è realizzato con aragosta caramellata, granchio reale e gusci di gamberi. Ho aggiunto un roux scuro realizzato con la santissima trinità, aglio e timo, oltre alla miscela di spezie di mia madre. Il granchio reale è arrivato la scorsa notte dalla Norvegia.

L’aragosta dal guscio morbido, che tende a essere più tenera e saporita rispetto a quelle di fine stagione, viene dal Maine ed è molto più costosa di quella dal guscio rigido. E un barattolo da due etti di caviale Oscietra costa 395 dollari. Se fossi stato un cuoco bianco, questa variante fastosa di gumbo sarebbe stata accompagnata da un sentore di appropriazione culturale.

Se fossi stato un cuoco nero che la serviva a un pubblico esclusivamente bianco mi sarei sentito comunque a disagio, come se da qualche parte in questo tentativo di abbellimento si nascondesse una vergogna recondita, secondo cui quel piatto popolare dei neri aveva bisogno di essere aggiustato. Ma stasera sono un cuoco nero che serve cibo di lusso a un pubblico perlopiù nero, con un presidente nero alla Casa Bianca (l’allora presidente Barack Obama, ndr) pochi isolati più in là.

Una brigata nera

FOTO DI STORM SANTOS

Questa è la prima serata in cui l’intera squadra dello Shaw Bijou – la squadra su cui mi gioco la reputazione e quasi tutto ciò che possiedo – lavora insieme. Siamo un gruppo eterogeneo, formato perlopiù da giovani, tutti bramosi, a metà strada tra l’essere estranei e amici, che diventeranno più intimi ogni sera nel calderone della cucina.

Lo staff che ho attorno è qualcosa che non ho mai visto prima d’oggi. Né nei ristoranti di lusso, né in classe al Culinary Institute, né sul set di Top Chef, da nessuna parte. Le brigate nelle cucine dell’alta ristorazione sono bianche come le tovaglie che coprono i tavoli e come i clienti abituali che vi siedono. E, in base alla mia esperienza, essere l’unico ragazzo nero nella brigata ti fa stonare come una nota minore in una scala maggiore.

Nessuno ti permette di dimenticare che non ne fai davvero parte. Anche se oggi sta ottenendo maggiore attenzione, la cucina è insensibile al razzismo più o meno quanto lo è al sessismo. L’ho sperimentato sulla mia pelle in ogni singola cucina in cui ho lavorato, dagli spazi delle dimensioni di un guardaroba di una nave di bonifica, alle scintillanti cucine d’acciaio inox dei ristoranti tre stelle Michelin.

A volte il razzismo prende la forma di parole e azioni sgradevoli. Altre volte resta un non detto, e si trasmette attraverso sguardi ostili e risatine nascoste. Ma la forma più corrosiva, e spesso la più difficile da affrontare, è il non essere considerati.

Ora che sto costruendo la mia cucina, non mi interessa l’inclusività di facciata descritta negli elenchi che compaiono nei manuali di orientamento per la gestione del personale. Le immagini generiche che ritraggono dei calderoni e le concessioni simboliche non funzioneranno, e d’altronde io non voglio che funzionino.

Sono uno dei pochissimi chef afroamericani nel mondo dell’alta ristorazione, e quindi è una mia precisa responsabilità essere inclusivo. Mentre mi guardo intorno stasera, gonfio il petto con orgoglio. Siamo una squadra giovane, talentuosa, e con la pelle di diversi colori. Ma solo perché siamo un arcobaleno di colori non significa che tutto funzionerà bene. Una cucina inclusiva non ha alcun valore se non fa del buon cibo.

La famiglia

Ho sempre amato le sere in cui mamma faceva lo stufato di egusi. Voleva dire che i miei genitori stavano perlomeno provando ad andare d’accordo. Gli odori della cucina della famiglia di mia madre erano delicati: peperoni che friggono nel burro, cipolle che diventano traslucide e aglio che si fa dorato, la fragranza burrosa di un roux e il profumo di gamberi di una baracca sul mare.

Mio padre, Patrick, era nigeriano, un uomo magro dal carattere irascibile. E proprio come lui, il cibo del suo popolo era intenso e intransigente. Le mie narici dilatate dai profumi pungenti dello stufato di egusi, l’odore dello stoccafisso che si ammorbidisce nel brodo.

Il fatto che mia mamma stesse cucinando il cibo della famiglia di mio padre era come minimo un gesto di distensione. Oppure semplicemente le piacevano quei sapori. In effetti, erano deliziosi.

Tutto ciò accadeva in un tranquillo isolato del Bronx, in una calda notte del 1992 o giù di lì. La casa era modesta e la nostra cucina era quella originale. Non luccicava con gli ultimi modelli di elettrodomestici in acciaio inox, ma era stata sfruttata con cura. Si era creato un solco nel linoleum di fronte ai fornelli, dove la mamma trascorreva ore e ore a cucinare.

Vicino a quello, c’erano quattro segni creati dal piccolo sgabello di legno su cui salivo spesso per guardarla. La seguivo ovunque come un cucciolo, e proprio come un cucciolo, quando lei era in cucina, le stavo sempre appiccicato. E così mentre cucinava la osservavo, con la mia testa che spuntava appena sopra al ripiano. Nonostante il suo lavoro da contabile per una compagnia di produzioni televisive e una vita sociale che farebbe vergognare la maggior parte dei Millennial, mia madre in qualche modo riusciva a organizzarsi per essere sempre in cucina. C’era sempre qualcosa che gorgogliava sui fornelli o che cuoceva nel forno. Lei, come me, gravitava lì intorno, cercando del tempo per sé stessa.


A quasi 27 anni, Kwame Onwuachi, vincitore del James Beard Award come miglior chef emergente nel 2019, aveva già aperto – e chiuso – uno dei più chiacchierati risstoranti d’America. Onwuachi condivide la straordinaria storia della sua formazione culinaria nel libro Appunti di un giovane chef nero, scritto con Joshua David Stein, e pubblicato in Italia da NR edizioni.

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