Netanyahu pensa di potersi salvare lanciando una sfida a tutta la regione, anche contro il volere degli Usa. Deve guadagnare molto tempo, puntando a sopravvivere politicamente almeno fino alle presidenziali Usa. Biden ha una sola possibilità: puntare a stringere un rapporto con il sempre più deluso Benny Gantz per far cadere il governo israeliano
«Bibi è il Re d’Israele!», gridavano entusiasti, poco più di un anno fa, i coloni della destra estrema messianica, festeggiando il ritorno al potere dell’uomo che garantiva loro spazio politico e fette sempre più vaste dell’agognata Terra della Redenzione. Ora, di fronte alle pressioni internazionali di alleati e nemici, quel re, indebolito dal disastro del sabato nero e dall’essere divenuto un problema nel problema, tenta l’arrocco: nel tentativo di proteggersi e, a sorpresa, muovere la sua torre come un ferro di lancia nella scacchiera mediorientale.
Prendere tempo
Netanyahu ha bisogno di comprare tempo. Il leader del Likud non vuol fermare la guerra, tanto meno mutarne natura, come chiedono gli Stati Uniti, che reclamano la fine di operazioni che colpiscono indiscriminatamente i civili, in una guerra urbana, come quella di Gaza, segnata dall’enorme potenza di fuoco di Tsahal.
La Casa Bianca, che mai prima si era spinta ad ammettere pubblicamente ciò che ai più è evidente – Israele rischia di perdere politicamente una guerra che vincerà militarmente – sembra concedere a Netanyahu solo gennaio per mettere fine a un conflitto di quella portata nella martoriata Striscia. Premendo sullo storico alleato perché, varcato quel paletto temporale, si cimenti semmai in operazioni mirate a eliminare o catturare leader e quadri di prima fila di Hamas. Mutamento indotto, del resto, dalla stessa morfologia del campo di battaglia, ormai spianato, e largamente controllato, in superficie, ma ancora oscuro e rischioso nel sottosuolo, percorso da labirintici tunnel dai quali nemmeno fili di Arianna sempre più sofisticati tecnologicamente possono garantire il ritorno.
La posizione di Washington è tesa a equilibrare diverse esigenze: assecondare la volontà israeliana di proseguire “fino in fondo” la guerra a Hamas; dare forma a un nuovo assetto strategico dell’area; neutralizzare il crescente dissenso, interno ed esterno al proprio sistema di alleanze, verso l’operato di Israele. Non ultimo, rigerarchizzare un rapporto talmente incrinato che, le stesse parole di Bibi – «non ci faremo condizionare da nessuno» – non tentano nemmeno di occultarlo.
In questo scontro tra alleati, che è anche sfida tra leader che non si stimano – Biden è persino giunto a darne conferma pubblica – sul piatto è anche la reputazione dell’America: una superpotenza mondiale che non riesce a farsi ascoltare dagli alleati – siano Israele o la Turchia, riottoso membro della Nato schierato contro il primo su Gaza – assume le sembianze della “pistola scarica”. Percezione gravida di incognite che, in riva al Potomac, al Pentagono come a Foggy Bottom, militari e diplomatici evocano come rischio da esorcizzare.
L’amministrazione Biden pensa il mutamento della guerra – che vuole contro Hamas, non contro i palestinesi in quanto tali – come prodromico alla successiva fase: quella del futuro assetto di Gaza e del rilancio di un negoziato capace di rivitalizzare gli accordi di Oslo, il cui sbocco logico prevedeva la nascita di uno stato palestinese accanto a Israele. Intese che, invece, Bibi e l’estrema destra nazional-religiosa, ritengono un’eredità tossica cui rinunciare. Tutta la destra vuole Gaza senza Hamas e la Palestina senza stato. Tanto che Bibi insiste nel ribadire che non sarà l’Anp, nemmeno quella “ricostruita” secondo i desiderata di Washington, a governare la Striscia, la cui sicurezza sarà in ogni caso garantita da Israele.
La speranza Trump
Posizioni inconciliabili – il volto dell’inviato Usa, il pur non ostile Jake Sullivan, dopo il recente colloquio con Netanyahu “parlava” più di ogni dichiarazione ufficiale – che gli alleati riluttanti cercano di imporre all’altro.
Per neutralizzare la linea Biden, l’arroccato Bibi spera di veder muovere la sua torre lungo lo speciale quadrato delle elezioni presidenziali americane. L’auspicio, lo stesso dei suoi accesi partner, è che il prossimo novembre sia Trump a vincere la corsa per la Casa Bianca.
Se un’America tribalizzata si consegnasse nuovamente al tycoon ora confinato nel dorato esilio di Mar-a-Lago, se “The Donald” tornasse al potere – cosa non impossibile visti i sondaggi nei cosiddetti swing states decisivi nella competizione presidenziale, che scontano anche la diserzione dell’elettorato musulmano democratico, deluso dall’atteggiamento di Biden nei confronti di Israele, ritenuto troppo morbido – la politica dei “due stati” finirebbe, nuovamente, nel cassetto.
I conti con l’Iran
Anzi, con Trump nella Sala ovale, Bibi potrebbe anche saldare i conti con l’Iran: a cominciare dagli alleati di Teheran nel fronte nord, quell’Hezbollah libanese ritenuto, per potenziale militare e affinità ideologica e religiosa con il regime iraniano, una minaccia strategica ben più consistente di Hamas. Se poi la situazione imponesse la liquidazione del principale sponsor del Partito di Dio, Israele e Usa si troverebbero saldamente fianco a fianco.
Al di là di sviluppi per ora solo futuribili, Netanyahu pare deciso a non uscire di scena. Se nelle prime settimane di guerra puntava a chiudere la sua infinita carriera politica riabilitandosi come l’uomo capace di vendicare l’onta e distruggere Hamas, dopo quasi tre mesi, Re Bibi comincia a sperare in un dopo in cui sarà ancora lui a dare le carte. Perché ciò avvenga deve darsi obiettivi di lungo periodo; non a caso afferma che la guerra durerà “anni” o, quanto meno, i molti mesi che servono per vincere il match decisivo della sua lunga vita politica.
Contando sul fatto che se in Israele molti gli attribuiscono la responsabilità del 7 ottobre e una fallimentare gestione della vicenda ostaggi – complicata ora dalla tragica morte di tre di loro uccisi dal “fuoco amico” di Tsahal in nome di regole d’ingaggio, tipiche della guerra a Gaza, improntate al principio “prima sparare, poi controllare” – la sua risoluta politica nei confronti di Hamas e il “no” a uno stato palestinese gli consentono di guadagnare consenso.
Il ruolo di Gantz
Per contrastare una simile prospettiva, Biden ha una sola possibilità. Puntare a uno stretto rapporto con il sempre più deluso Benny Gantz, che, dopo l’iniziale afflato unitario, si è reso conto che il premier intende logorarlo, oscurandolo all’insegna della vittoria su Hamas e dell’opposizione a ogni ipotesi di “Fatah-stan”. E, soprattutto, non scoraggiarlo se intendesse abbandonare l’esecutivo. Certo, anche in caso di uscita dal governo di Gantz, i numeri sarebbero ancora dalla parte del redivivo Re dei Re, ma difficilmente Bibi sopravviverebbe all’addio di Blu e Bianco che, con la benedizione a stelle e strisce, potrebbe trascinare con sé anche dissidenti del Likud.
Nonostante l’arrocco, e le pedine che ha a disposizione, lo scacco matto a Re Bibi è ancora possibile: solo che si voglia muovere prima che l’autunno materializzi, oltreoceano, una mossa del cavallo destinata a cambiare l’esito della partita.
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