Si concludono mestamente l’esperienza presidenziale e la lunghissima carriera politica di Joe Biden. È inutile girarci attorno: si può umanamente empatizzare per il tormento di un padre che vuole evitare anni di carcere al figlio, ma la grazia concessa a Hunter Biden – che in realtà costituisce un ampio scudo per proteggerlo da qualsiasi incriminazione futura – è una macchia pesante su questa carriera e sul suo lascito.

Una macchia che si aggiunge all’errore, pesante e imperdonabile, di non essersi fatto da parte al momento opportuno, lasciando che fossero poi le primarie a scegliere il candidato o la candidata dei democratici nel 2024.

Forse i democratici avrebbero perso lo stesso; e forse – ma è lecito dubitarne – Kamala Harris avrebbe comunque ottenuto la nomination. Di certo, l’intestardirsi di Biden ha reso ancor più difficile, se non impossibile, impedire il ritorno di Trump alla Casa Bianca.

Dalla gloria alla polvere

La politica si muove spesso veloce e implacabile. Solo un anno e mezzo fa di Biden si celebravano la sagacia politica, la capacità di leadership e l’alto senso delle istituzioni. Presiedeva un’amministrazione straordinariamente coesa e disciplinata, dalla quale non usciva uno spiffero e dove non vi erano polemiche né dimissioni (su questo, il contrasto con il caos e il dilettantismo della presidenza Trump era particolarmente stridente).

Trasferiva questa disciplina anche alle maggioranze democratiche, fragilissime e sulla carta divise e litigiose, al Congresso: con il pareggio al Senato rotto solo dal voto (frequentissimo) della vicepresidente Harris e l’equilibrio alla Camera dipendente dalla prevenzione di qualsivoglia defezione o assenza. E dove contro tutte le previsioni – e una storia recente d’improduttività legislativa fattasi all’apparenza strutturale – si riusciva a far approvare legislazione sostanziale come non si vedeva da decenni: sulle infrastrutture, sulla transizione energetica, sul sostegno a una reindustrializzazione piegata alle politiche ambientali e all’obiettivo di recuperare sovranità e autonomia rispetto alla produzione di beni strategici, alterando stadi e percorsi di supply chains ritenute troppo sinocentriche.

Guidava, Biden, una politica estera che sembrava anch’essa ottenere successi non scontati, con un ampio sostegno bipartisan alla politica di aiuti all’Ucraina e il rilancio della leadership statunitense in un fronte atlantico rivitalizzato dall’aggressione russa, che estendeva materialmente il suo impegno a est e si ampliava anche a storici paesi neutrali quali Finlandia e Svezia. I buoni risultati dell’economia, con un rimbalzo postpandemico migliore del previsto in termini di crescita del Pil e dell’occupazione, parevano completare il quadro. E inducevano molti a celebrare quella di Biden come una delle presidenze più di successo dell’epoca contemporanea.

Certo, contraddizioni e cortocircuiti non mancavano, con un’inflazione che erodeva molti dei progressi economici e un quadro internazionale assai più opaco e complesso della retorica – binaria e da guerra fredda – a cui Biden spesso si affidava per descriverlo e spiegare le sue scelte di politica estera. Ma pochi avrebbero immaginato una caduta così rapida, fragorosa e, in una certa misura, tragica. Nella quale entravano finalmente in asse l’anzianità e la fatica fin troppo visibile del presidente e la crescente debolezza politica, sua e del suo partito. Dove scompariva cioè lo scarto tra la percepibile fragilità dell’uomo Biden e l’apparente, straordinaria abilità del Biden politico e presidente.

Una fragilità umana manifestatasi nel suo ostinato rifiuto di comprendere come la sua parabola politica, iniziata più di mezzo secolo prima con l’elezione appena trentenne al Senato, fosse infine giunta al capolinea. E ora, ancor più con la decisione familistica, eticamente ingiustificabile e politicamente nociva, di graziare l’impresentabile figlio Hunter.

L’assist a Trump e Musk

Un «abuso di potere», ha commentato per una volta correttamente Donald Trump, che di abusi e familismo può vantare un’esperienza senza pari e nelle stesse ore procedeva a nominare ambasciatore in Francia il consuocero Charles Kushner (a suo tempo condannato e graziato dallo stesso Trump nel dicembre 2020). Ma appunto è da Trump, e non da Biden, che ci si può aspettare simili gesti e tanta impudenza. Che contribuiscono ad alimentare e acuire quella sfiducia nella politica e nelle stesse istituzioni di cui si nutre in fondo il populismo demagogico del prossimo presidente e di tanta destra, negli Usa e non solo. E che colpiscono una democrazia già di suo fragile e in difficoltà.

Lo mostrano bene alcune delle reazioni all’annuncio di Biden, a partire da quella di Elon Musk che ha preso in giro il presidente, ritwittando una sua vecchia dichiarazione nella quale affermava che nessuno è «al di sopra della legge». Il figlio di un presidente – così come il consuocero e le tante figure a lui vicine, da Manafort a Roger Stone, che Trump graziò quattro anni fa – al di sopra della legge invece ha dimostrato di starci. Le conseguenze politiche ce le indicano le numerose e immediate prese di distanza di molti, influenti democratici.

Consapevoli che la disillusione manifestatasi anche nell’astensionismo del 5 novembre scorso rischia di essere ulteriormente alimentata da questa decisione. E comprensibilmente preoccupati per l’utilizzo che ne faranno gli avversari politici.

Il cui progetto politico poggia sulla intenzione di dare corso a un radicale indebolimento di tante istituzioni di garanzia e agenzie federali indipendenti. Per rimuovere qualsiasi diaframma nel rapporto diretto e non mediato tra il leader e il suo popolo; e, più prosaicamente, per eliminare strutture e regole capaci di contenere e moderare i poteri di una presidenza costituzionalmente debole quale è quella statunitense. Fondato cioè su una rivendicazione – pericolosa e spregiudicata – di privilegi esecutivi che la grazia di Hunter Biden a modo suo incarna e legittima.

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