Ventun giorni! Ventun giorni di tregua!, invocano all’unisono Washington e Parigi nel disperato tentativo di trovare una soluzione diplomatica che eviti l’allargamento del conflitto in Medio Oriente. Mentre, indifferente a ogni appello, Israele si dice, con il ministro degli Esteri Katz, deciso a proseguire «sino alla vittoria» l’offensiva contro Hezbollah in Libano. Appello e intenzione, ribaditi dallo stesso Netanyahu, assai rivelatori.

Scongiurare l’estensione del conflitto, assicurare un certo numero di settimane di tregua: quante volte si sono udite simili parole, ormai mute? Ammuffite in bocca, avrebbe detto l’hofmannstalhiano Lord Chandos.

Certo, il tempo è fattore decisivo in politica. Comprarne è, più che mai, imperativo per Biden, che ha associato Macron all’iniziativa in ragione dello storico legame francese con la comunità cristiana, peraltro oggi minoranza, demografica e politica, all’ombra delle falesie di Raouché. Eppure gli Stati Uniti hanno avuto molto tempo sin qui.

È ormai trascorso un anno dall’attacco di Hamas, dalla risposta, andata ben oltre il legittimo “diritto alla difesa” di Israele, dall’immediato intervento di Hezbollah a sostegno dei “confratelli” di Gaza nel corso della guerra dei proxies orchestrata dall’Iran, che ha delegato loro lo scontro con “l’entità sionista”. Tempo sprecato, dilapidato, corrotto.

Un anno senza freni

In questo lungo anno, gli americani hanno detto di voler evitare l’allargamento della guerra ma, nei fatti, hanno consentito a Netanyahu di agire come ha voluto. Non basta esortare il fedele, ma non troppo allineato, alleato a non trasformarla in conflitto regionale. Non basta mandare periodicamente nella regione Blinken, Sullivan o Hochstein, mettendo in rilievo lo sforzo diplomatico compiuto.

Senza risultati, questo sforzo si trasforma in perdita di legittimità e gravità politica. Se gli Usa volevano premere su Israele, dovevano minacciare seriamente di tagliare finanziamenti e sostegno militare. Privandosi di tangibili “argomenti” di pressione, hanno oggettivamente consentito a Bibi e ai suoi alleati messianici di cavalcare la politica del fatto compiuto.

Così Netanyahu ha tirato dritto: convinto che, volente o nolente, l’America avrebbe seguito. Perché gli obiettivi strategici di Washington – liberarsi degli islamisti palestinesi e libanesi e contenere l’Iran, se non farne cadere il regime – coincidono con quelli del governo israeliano, che, di suo, aggiunge il carico da novanta della Grande Israele in versione nazionalista o nazionalreligiosa. Dando per scontata l’annessione della Cisgiordania e senza escludere che, prima o poi, la desertificazione urbana di Gaza ridotta in macerie dalla guerra, così come l’istituzione in Libano di una fascia di sicurezza in profondità, consenta aggiustamenti dei confini.

Mediatori ambigui

È questa “inconfessabile” sovrapposizione strategica a impedire agli Usa di mandare al riottoso Bibi un messaggio decisivo sul fronte della guerra a Gaza e ora in quella del Libano. In riva al Potomac – nell’ambiente del Consiglio di sicurezza nazionale più che al Pentagono o alla Cia – prevalgono ancora i fautori della tesi secondo cui fermarlo significa avvantaggiare, prima ancora che Hamas ed Hezbollah, l’incubo mediorientale a stelle e strisce da quarantacinque anni: l’Iran.

Si tratti del conflitto a Gaza o di quello lungo la Linea Blu, gli Stati Uniti si presentano così, non come un vero e proprio mediatore, e nemmeno come potenza capace di imporre in armi la pax americana, ma nella strana veste di mediatore-alleato. Per di più partner di un governo che, in nome del sempiterno slogan «Contare su sé stessi», è geloso custode della propria autonomia.

Nemmeno il tentativo di mettere la guerra in forma, di circoscriverla a obiettivi limitati, poteva coesistere a lungo nella veste di simile Giano bifronte. O gli Usa si mostrano capaci di orientare le scelte del riluttante alleato o alimentano la percezione che non solo non siano mediatori, ma si stiano trasformando in delegittimata im-potenza globale. E, dal momento che la loro capacità militare resta indiscussa, a metterli in questo vicolo cieco è la loro stessa ambiguità politica.

Del resto, nelle poco segrete stanze washingtoniane, poco meno di un anno fa il non troppo retro-pensiero suonava così: lasciamo che Bibi infligga un colpo senza precedenti a Hamas e Hezbollah e, per interposti proxies, all’Iran, poi diremo “ok, ora basta !”. Non ha funzionato. È stata sottovalutata l’irriducibilità politica e ideologica dell’estrema destra israeliana (tutta, quella nazionalista e quella nazionalreligiosa) a lasciarsi ingabbiare dall’interesse nazionale del più potente alleato.

Il tempo di Netanyahu

In questo inossidabile ma non facile rapporto, a comprare tempo per primo è stato Netanyahu. Rifiutando di dimettersi dopo il 7 ottobre, usando la guerra per riabilitarsi come il leader che avrebbe distrutto Hamas – e i sondaggi oggi gli danno ragione – aspettando tenacemente novembre nella speranza che alla Casa Bianca torni Trump.

Attendendo, forzando, disobbedendo, Netanyahu ha visto progressivamente scemare lo spazio di manovra dell’inviso Biden, più che mai “anatra zoppa” dopo la forzosa rinuncia alla Casa Bianca. Ora punta a sfruttare le contraddizioni di Harris: la candidata dem è parte dell’amministrazione uscente, non può dire “Non ho alcuna responsabilità”, anche se la politica estera è competenza del presidente, del Consiglio di sicurezza nazionale, del dipartimento di Stato. La corsa elettorale induce, poi, Kamala Harris, per convinzione o calcolo poco importa, alla continuità sul terreno mediorientale: nel complicato tentativo di compensare la possibile perdita del sostegno dei musulmani e dei giovani pro-Pal negli swing states con la messe di voti nel granaio della comunità ebraica americana.

Posizione ambigua, quella di Washington, che, tra le altre cose, mostra le difficoltà dell’ancora prima potenza globale nel dare ordine al mondo. E contribuisce ad accentuare la crisi dell’ordinamento internazionale. Come palesano, in questi giorni, l’Assemblea generale dell’Onu, ridotta a passerella dei vari leader nazionali, e il Consiglio di Sicurezza, espressione di ormai inattuali equilibri, impossibilitato a imporre una soluzione per il dissenso tra i suoi membri permanenti.

A proposito del Palazzo di Vetro, dovrebbero far suonare un campanello d’allarme a Washington le parole di re Hassan di Giordania, non certo ostile agli Usa, che in quella sede ha sottolineato come la ricerca di una soluzione per Gaza non abbia avuto dalla comunità internazionale lo stesso sostegno e impegno dato all’Ucraina dopo l’invasione russa. Una conferma, ha detto il monarca hascemita, che nei confronti di Israele l’Occidente pratica un doppio standard che fa lievitare il dissenso in quella vasta platea di stati che, con grande soddisfazione di Xi Jinping e Putin, non occulta ora il collocarsi nel “sud del mondo”.

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