Giovedì sera uno straziato Joe Biden ha preso parte al dolore della nazione che assisteva attonita agli attacchi terroristici di Kabul, ha promesso che darà la caccia ai colpevoli e ha confermato che la natura della missione non cambierà.

C’è chi ha visto nel suo discorso la debolezza di un leader che ha tragicamente sbagliato tutte le decisioni, chi la forza di chi difende le ragioni delle sue scelte anche di fronte ai gravissimi ostacoli che la realtà pone. Ma in un passaggio del discorso ha esibito invece una certa disperazione, intesa non come sentimento personale ma come fatto politico. Biden ha detto che il rapporto con i Talebani non si regge sulla fiducia («nessuno si fida di loro») ma sul «self-interest» dei nuovi capi dell’Afghanistan, cioè sul loro interesse, che in questa circostanza complicatissima converge con l’interesse americano.

Il calcolo del presidente è chiaro: ai Talebani in questo momento non conviene sgarrare. Il nuovo regime ha bisogno di un minimo di stabilità interna per insediarsi e strutturarsi, ha bisogno di tenere a distanza i gruppi della galassia terroristica che si oppongono al loro potere, ha bisogno di controllo e di ordine nelle strade, deve rispettare i patti per evitare reazioni che vanificherebbero le conquiste, poi avrà bisogno di un’aliquota minima di credibilità e presentabilità internazionale, perché nessuno può realisticamente pensare di governare un paese nel totale isolamento. Queste necessità imposte dall’interesse sono la garanzia di una risoluzione non già dignitosa – quell’ambizione è svanita settimane fa – ma almeno tristemente razionale della situazione. L’esito di questi tragici giorni e della presenza ventennale delle truppe occidentali è dunque interamente subordinato dall’interesse dei nuovi reggenti del paese. Un altro modo per dire la stessa cosa: il leader del mondo libero è nelle mani della volontà dei Talebani di perseguire il loro interesse.

L’equazione fragile

L’equazione di Biden è fragile. Quando il presidente parla di “interesse” si riferisce a una categoria politica che implica qualità e modi di agire su cui tutti gli attori coinvolti concordano. Un rapporto d’interesse si basa sul fatto che gli interlocutori agiscono razionalmente, rispondono in modo prevedibile a certi segnali e dispongono del loro potere per raggiungere nel modo più semplice un obiettivo che tutti comprendono. La favola della rana e dello scorpione insegna che sono necessarie premesse condivise anche per raggiungere uno scopo che potrebbe apparire ovvio per tutti i soggetti coinvolti, avere salva la vita e non affogare nel fiume.

Biden ha detto all’America e al mondo che il ritiro delle truppe si regge sulla premessa che i Talebani, come lo scorpione della favola, non desiderano certo affogare. Ma è il presidente è certo che quando lui e i Talebani parlano di “interesse” intendano la stessa cosa? I Talebani rispondono a un’interpretazione radicale della legge coranica, hanno fatto del terrore un principio d’ordine e di potere, hanno massacrato civili e bambini nella loro avanzata verso Kabul; i Talebani sono quelli che hanno bandito la musica in pubblico e ricacciato le donne in casa, dove attendono guai peggiori, sono quelli che hanno ospitato nei loro territori i leader di al Qaida, sono quelli delle mutilazioni pubbliche e delle esecuzioni sommarie, delle frustate in piazza, sono quelli che quando hanno preso il potere la prima volta hanno torturato il presidente Najibullah, lo hanno castrato, gli hanno messo i genitali in bocca, hanno legato il suo corpo a un’auto e lo hanno trascinato per le strade, appendendo ciò che ne rimaneva a un palo della luce. Biden e l’occidente sono certi che il «self-interest» talebano sia una garanzia su cui fare affidamento?

 

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