Il presidente americano ha annunciato un brusco inasprimento su alcuni prodotti tecnologici provenienti dalla Cina per prevenire «l’invasione» del mercato americano: è uno dei modi in cui cerca di battere lo sfidante sul suo stesso terreno. Il tycoon rilancia includendo anche il Messico e condendo il tutto con la retorica xenofoba. Il nuovo paradigma dem e il voto della Rust Belt
Alle elezioni presidenziali americane del 2012 sarebbe stato inconcepibile evocare il protezionismo economico. Al tempo sembrava un relitto di un’epoca passata. Ci si preparava a costituire ampi spazi di libero scambio nell’area euro-americana e anche verso gli alleati del Pacifico.
Quattro anni dopo, questo consenso apparente e bipartisan si incrinava con l’arrivo prepotente del trumpismo, che pure appariva alquanto eterodosso rispetto al mainstream economico. Nel 2019 l’allora candidato Joe Biden bocciava i dazi di Donald Trump nei confronti di alcuni prodotti tecnologici cinesi affermando che «anche uno studente di economia al primo anno di università capirebbe che i costi li pagherebbero i consumatori americani».
Ed eccoci a questi giorni, dove Biden è diventato presidente e non solo non ha abolito quei provvedimenti, anzi li ha rinforzati, quadruplicando le imposte dal 25 per cento al 100 per cento. Su una serie di prodotti di fabbricazione cinese come auto elettriche, pannelli solari, alluminio, batterie e altri materiali tech, per un totale di circa 18 miliardi di dollari. Sembrerebbe che dunque ci possa essere concordia nel mondo politico americano almeno su questo punto, anche se appaiono voci isolate quelle delle associazioni di categoria come la National Retail Federation, organizzazione imprenditoriale che racchiude i venditori al dettaglio, che chiedono al presidente di abolire i dazi «per non far pagare i consumatori».
Non solo: Trump rincara la dose a livelli che vanno ben oltre le idee del primo mandato presidenziale del tycoon. A venire colpite sarebbero anche quelle fabbriche messicane che producono quei veicoli «con un dazio del 200 per cento», come dichiarato recentemente dallo stesso ex inquilino della Casa Bianca a un comizio in New Jersey. Come se al muro anti migranti, che ovviamente resta uno dei punti centrali del messaggio trumpista, se ne aggiungesse un altro, a scudo del sistema industriale americano. E questo messaggio risuona anche nelle file dem: il senatore dell’Ohio Sherrod Brown ha rimarcato che l’unico rimedio è «proibire l’importazione di auto cinesi. Punto».
L’approccio di Biden però è più chirurgico per una ragione semplice: che alcuni componenti cruciali sono usati nelle fabbriche di Michigan e Pennsylvania. Alcuni analisti sottolineano come questo equivarrebbe a riscrivere totalmente le regole del commercio internazionale e l’amministrazione spiega che, su un totale di 427 miliardi di beni importati dalla Cina lo scorso anno, solo una minima percentuale di questi, pari a circa 18 miliardi, verrebbe colpita dai nuovi dazi. Un provvedimento “chirurgico” che evita rincari per 1.500 dollari all’anno, come detto da Lael Brainard, adviser economica di Biden.
Le sirene populiste però hanno giocato un ruolo, dato che il provvedimento vuole evitare in modo “preventivo” un’invasione di beni cinesi che al momento non c’è stata. E in ballo ci sarebbe anche la questione del trattato di libero scambio negoziato dall’amministrazione Trump con Canada e Messico, l’Usmca, che scade nel 2026 e che i repubblicani vorrebbero rivedere in modo restrittivo, dando comunque, così dicono le fonti interne alla campagna di Trump, la possibilità al governo messicano di negoziare.
Difficilmente però il vicino meridionale degli Stati Uniti deciderà di mettere nuovamente mano a un patto faticosamente elaborato dopo mesi nell’estate del 2018 e firmato il 1° luglio del 2020. In ogni modo quello che conta è il messaggio che risuona particolarmente bene in quegli stati come Michigan, Ohio e Pennsylvania, facenti parte della cosiddetta “Rust Belt”, quella “cintura della ruggine” che ha spinto Donald Trump alla vittoria nel 2016 e che oggi rischia nuovamente di seguire le sue sirene.
I sindacati
L’amministrazione Biden però appare estremamente lontana dalla visione tardo-globalista di Hillary Clinton, come testimonia la dura posizione assunta dalla Casa Bianca riguardante l’acquisto della U.S. Steel, un conglomerato siderurgico, da parte di un competitor giapponese. Quello che conta adesso è evitare di lasciare a Trump l’aura di difensore del voto operaio. Per quello il presidente si è assicurato per tempo il sostegno dell’Uaw, il sindacato dei lavoratori dell’automobile, che ha ottenuto un nuovo contratto per i suoi operai nei confronti dei maggiori produttori del settore.
Difficilmente però Trump si fermerà per queste mosse mirate: a differenza del suo avversario, può calcare la mano con la retorica xenofoba. E pensare che a inizio anno si era cominciato a parlare di un possibile trattato con i paesi latino-americani dell’area del Mercosur, ma i colloqui erano stati affossati per il veto posto proprio dal senatore Brown dell’Ohio, dalla cui difficile rielezione dipendono anche i margini di manovra di Joe Biden per il suo eventuale secondo mandato.
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