Pochi, in occidente, si sono accorti che lo scorso 1° febbraio ha segnato l’anniversario del colpo di stato architettato dai militari in Birmania. Quella mattina, infatti, il generale Min Aung Hlaing – comandante del Tatmadaw (le forze armate birmane) – procedette all’arresto di Aung San Suu Kyi e dei vertici della Lega nazionale per la democrazia (Nld), vale a dire la compagine politica che nel novembre 2020 aveva riscosso un enorme consenso elettorale nel paese e che si apprestava ad assumere la responsabilità di dare vita a un governo. All’improvviso, quindi, un decennio di faticosa transizione verso un impianto politico caratterizzato da maggiore democraticità era stato spazzato via dall’ennesimo intervento delle forze armate, riportando le lancette ai giorni bui dell’autoritarismo, da cui il paese era stato piagato sin dal 1962.

Contrariamente alle loro aspettative, e malgrado le efferate violenze perpetrate ai danni della popolazione, i militari non sono però riusciti a consolidare il proprio potere all’interno del paese e i costi sociali sono stati catastrofici: finora circa 1.700 civili sono stati uccisi – alcuni dei quali torturati a morte nei centri preposti a condurre interrogatori sommari – più di diecimila incarcerati e oltre 300mila hanno perso quel poco che possedevano a causa delle continue razzie del Tatmadaw nei villaggi al fine di prostrare qualunque forma di dissenso.

Crisi umanitaria

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Questi nuovi “senza tetto” vanno naturalmente a sommarsi a quelle centinaia di migliaia già presenti nel paese prima del colpo di stato, come i cittadini del gruppo etnico dei Rohingya nello stato del Rakhine. Le conseguenze umanitarie di questo esodo potrebbero essere inimmaginabili.

Dal punto di vista economico, oltre all’improvvisa scomparsa di migliaia di posti di lavoro a causa della pandemia, i cittadini hanno dovuto fare i conti con una fortissima spirale inflattiva, che sta determinando una caduta verticale di una grande fetta della popolazione in una condizione di povertà estrema.

Le Nazioni unite hanno calcolato che all’incirca 15 milioni di persone, tra cui un terzo rappresentato da bambini, necessiterebbero di cospicui aiuti umanitari. Questa situazione di caos tende ovviamente a favorire l’abbandono del paese da parte di alcuni grandi gruppi industriali esteri, come Chevron e TotalEnergies.

Tutto ciò però sembra non aver indebolito la determinazione di una cospicua parte della popolazione nel continuare a opporre una strenua resistenza alle angherie dei militari.

Disobbedire

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Nelle città principali questa opposizione ha dapprima assunto la forma del movimento di disobbedienza civile, all’interno del quale sono confluiti studenti e molti di coloro responsabili della fornitura di servizi pubblici essenziali: dottori, personale paramedico, insegnanti si sono semplicemente rifiutati di continuare a espletare le proprie mansioni in un paese sotto il controllo della giunta militare.

Il decennio di apertura del paese al mondo esterno, tra il 2011 e il 2021, ha certamente fatto crescere le aspettative della popolazione e dato loro nuove opportunità: la nuova chiusura imposta dai militari ha risvegliato la coscienza collettiva determinata a impedire che le forze armate possano condannare la Birmania a un nuovo indefinito baratro.

Nel corso dell’ultimo anno la resistenza, in molte regioni del paese come Sagaing, Magwe e Chin, si è radicalizzata in virtù della comparsa delle Forze di difesa popolare, un assortimento di gruppi etnici armati nominalmente leali al governo di unità nazionale, formato da membri dell’Nlf e dichiaratosi legittimo organo amministrativo in esilio.

È forse inutile evidenziare come sia estremamente difficoltoso per il governo di unità nazionale tenere a bada i vari gruppi etnici armati che sono confluiti al suo interno, molti dei quali, in realtà, operano in maniera indipendente e hanno delle posizioni totalmente dissimili sulle strategie di fondo della resistenza.

Una questione dimenticata

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Negli ultimi tempi, comunque, la crisi birmana ha ricevuto scarsa attenzione da parte della comunità internazionale, soprattutto a causa dei numerosi fronti “caldi” – Afghanistan, Siria e la guerra in Ucraina – a cui è necessario fare attenzione.

Gli europei e gli statunitensi hanno adottato svariate misure sanzionatorie contro individui e organizzazioni collaterali al regime, lasciando, però, che della questione birmana si preoccupasse soprattutto l’Asean (Associazione delle nazioni del sudest asiatico), a sua volta profondamente diviso sulle modalità da adottare per riportare la situazione sotto controllo.

Incredibilmente, tuttavia, lo scorso gennaio il presidente di turno dell’Asean, il primo ministro cambogiano Hun Sen, è diventato l’unico capo di un governo a recarsi in visita in Birmania per incontrare Min Aung Hlaing.

La visita, formalmente finalizzata a discutere dell’attuazione di un piano proposto dall’Asean per porre fine alle violenze, non ha fatto altro se non fornire un qualche tipo di legittimazione al regime militare.

Tre scenari

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Nonostante nessuno sia effettivamente in grado di prevedere in che modo la situazione in Birmania possa evolvere nei prossimi mesi, è plausibile pensare a tre scenari, nessuno dei quali, peraltro, condurrebbe alla pacificazione e alla rinascita del paese.

Il primo è relativo alla affermazione perentoria dei militari, magari anche attraverso una nuova consultazione elettorale, promessa per il 2023. Uno scenario di tal fatta, tuttavia, non contribuirebbe a ridurre il conflitto sociale e anzi imporrebbe ai militari di affidarsi permanentemente a forme di repressione e controllo, condannando il paese all’involuzione politica ed economica.

Il secondo, improbabile, scenario vedrebbe il successo del governo in esilio e delle forze di difesa popolare; ciò si tradurrebbe nella necessità di reintegrare le centinaia di migliaia di soldati sconfitti all’interno dei ranghi della società, per evitare che nuovi gruppi armati possano emergere e destabilizzare il paese.

Una tale situazione, tuttavia, potrebbe determinare un’ulteriore frammentazione del paese lungo linee etniche, considerato il fatto che nessun governo centrale è mai riuscito a porre sotto il proprio controllo l’intero territorio nazionale.

Peraltro, un eventuale crollo del Tatmadaw e la comparsa di un nuovo assetto politico potrebbe rappresentare un’ottima opportunità per alcuni gruppi etnici minoritari di puntare al consolidamento del loro controllo in alcune zone del paese. Tutto sommato, comunque, lo scenario più verosimile rimane l’ultimo, e cioè quello rappresentato dallo stallo in cui versa attualmente la Birmania.

Il problema dell’esercito

Le forze popolari difettano di equipaggiamenti militari, strategia e coordinamento per fare efficacemente fronte alle forze armate e il governo di unità nazionale – a parte l’endemica mancanza di risorse finanziarie – non è stato ancora formalmente riconosciuto da alcun governo straniero (fatta eccezione per il parlamento europeo).

Il Tatmadaw, dal canto suo, sta scontrandosi con l’impossibilità di concentrare le proprie forze su un unico fronte, visto che l’intero paese è attraversato dal caos. Tra le file dei militari il morale è peraltro sempre più basso. Oltre a non riuscire a controllare efficacemente il territorio, continuano a rincorrersi le notizie relative a episodi di diserzione.

Sembra, infatti, che oltre duemila soldati abbiano già abbandonato l’esercito, alcuni dei quali rifugiandosi nei gruppi resistenti. Si tratta di percentuali risibili per le forze armate, che possono contare su più di 300mila uomini, ma questo inedito fenomeno non fa altro che porre in evidenza i numerosi problemi che il Tatmadaw deve affrontare in questo frangente.

Se però la situazione attuale dovesse trascinarsi a lungo non solo nessuna delle due parti – le forze armate o l’opposizione – prevarrebbe sull’altra, ma sarebbe solo la Birmania a uscirne sconfitta.

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