Gli Stati Uniti hanno appena ripreso la fornitura a Israele di bombe aeree da 227 chili. La Cina ospiterà nel fine settimana colloqui di riconciliazione tra Hamas e Fatah. Anche in Palestina la potenza egemone e quella in ascesa sono schierate su fronti opposti, corrispondenti ai rispettivi interessi: da un lato la difesa di Israele, dall’altro la nuova via della Seta.

Le delegazioni delle fazioni palestinesi che sabato e domenica prossima si incontreranno a Pechino sono ai massimi livelli: a rappresentare il “movimento di resistenza islamica” responsabile del massacro del 7 ottobre scorso, arriverà dal Qatar il suo leder politico, Ismail Haniyeh. Per i laici del vecchio rais Abu Mazen ci sarà il vicepresidente del partito, Mahmoud al-Aloul.

I due gruppi sono in lotta dal 2006, da quando Hamas ha vinto le elezioni e, l’anno successivo, ha cacciato i rivali dalla Striscia, trasformandola in un emirato islamico.

Domenica e, di nuovo, martedì 23, i palestinesi incontreranno l’influente ministro degli Esteri Wang Yi, l’artefice assieme a Xi Jinping della politica estera di Pechino reindirizzata verso il Sud globale.

Un accordo che mettesse fine a parte delle divisioni tra i palestinesi favorirebbe i colloqui in corso con Israele per fermare la mattanza di Gaza. La soluzione su cui si tratta è quella di una forza palestinese mista che amministri Gaza dopo il ritiro (non completo) delle truppe israeliane.

Gli eredi dello sceicco Ahmed Yassin e di Yasser Arafat sono pronti a governare di nuovo assieme la Striscia? Difficile, ma forse i palestinesi a questo punto non hanno alternative.

La leva di Xi

Un anno fa a Pechino è già riuscito il “miracolo” di far stringere la mano a Iran e Arabia Saudita. A Gaza come in Ucraina, la Cina si presenta come “neutrale”, pronta a raccogliere i dividendi di una diplomazia che, attraverso il brand “nuova via della Seta”, promuove la cooperazione economica e una visione fondamentalista del principio di sovranità.

Su Hamas (fondata nel 1987 e fortemente radicata nella società) destinata a rimanere una componente fondamentale della politica palestinese, la Cina può esercitare una leva più forte rispetto agli Stati Uniti e all’Unione europea, che l’hanno isolata nella lista nera delle “organizzazioni terroristiche”. La Cina, che ha riconosciuto lo stato di Palestina nel 1988, non chiede nemmeno il disarmo degli islamisti.

A spingere Pechino a mettersi alla prova in una delle regioni più turbolente del pianeta sono i suoi crescenti interessi, commerciali, economici, geopolitici. E la strategia dei paesi arabi e islamici che, dopo decenni di egemonia statunitense, tendono la mano a Pechino, per sfruttare nuove opportunità di cooperazione e perché la Cina non guarda al colore dei regimi politici: tutti possono essere “amici”, se funzionali ai suoi obiettivi di sviluppo nazionale.

Una popolazione giovane e politiche governative di sostegno attirano le compagnie hi-tech cinesi in Medio Oriente, titolava nei giorni scorsi il Global Times.

Tra affari e macerie

Secondo i dati delle dogane cinesi, dal 2017 al 2022, il volume degli scambi tra Cina e Medio Oriente è quasi raddoppiato, passando da 262,5 miliardi di dollari a 507,2 miliardi di dollari. Nel 2022, il Medio Oriente è stato il partner che ha fatto registrare la crescita più impetuosa, con un volume commerciale totale in aumento del 27,1 per cento su base annua.

La Cina vuole stabilizzare l’area da cui arriva circa la metà delle sue importazioni di greggio. A investire nei paesi dell’area - che a loro volta puntano a ridurre la dipendenza dall’export di idrocarburi - sono le big cinesi dell’hi-tech (Huawei, Tencent, Alibaba) che stanno costruendo nuove infrastrutture di telecomunicazione, la fin-tech cinese con i suoi sistemi di pagamento elettronico, i produttori di auto elettriche.

Tornando a Gaza, le compagnie cinesi sono destinate a svolgere un ruolo importante in una ricostruzione che si annuncia lunga e costosa. Per le Nazioni unite ci vorranno infatti anni per rimuovere le macerie e rimettere in piedi i palazzi distrutti e danneggiati dai bombardamenti israeliani post-7 ottobre: 137.297 (oltre la metà del totale), secondo le ultime stime dello Un Environment Program. Serviranno tra i 500 e i 600 milioni di dollari soltanto per liberare la Striscia dai loro detriti e (al momento) circa 40 miliardi di dollari per la ricostruzione vera e propria. Fondi ai quali - così come nell’Iraq dopo la seconda guerra del Golfo - sono pronte a contribuire le compagnie di stato cinesi.

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