Da un anno i settori delle materie prime e dello shipping sono in crisi. I prezzi continuano ad aumentare drasticamente e con il blocco della Ever Given in Egitto si rischia di aumentare la spinta inflazionistica
«Se qualcosa può andare storto, lo farà». Ricordare la legge di Murphy costituisce probabilmente la migliore rappresentazione dell’attuale condizione che insiste sul mercato delle materie prime e dello shipping.
Il blocco del canale di Suez a causa dello spiaggiamento della nave Ever Given non sta facendo altro che esacerbare la tensione sul lato dell’offerta che da un anno oramai investe entrambi i settori. Sebbene se ne inizi a parlare solamente ora, infatti, è già dalla scorsa estate che il comparto manifatturiero mondiale è alle prese con forti aumenti sia dei costi delle spedizioni (noli e container) sia delle quotazioni di acciaio, metalli, petrolio e polimeri.
Il rame, tanto per fare un esempio, ha quasi raddoppiato il valore, passando dal minimo dei 4.370 dollari per tonnellata toccati a fine marzo 2020 agli attuali 9mila. Lo stesso petrolio, dopo aver prodotto un’incursione in territorio negativo per la prima volta nella storia lo scorso aprile, punta oramai verso gli 80 dollari al barile.
Particolarmente forti anche gli aumenti nel comparto degli acciai con il coil a caldo che da 380 euro a tonnellata toccati lo scorso giugno veleggia verso gli 850 euro. Una performance, questa, che se da un lato poggia le basi sulla riaccelerazione dei consumi cinesi (il dragone incide per oltre il 50 per cento sulla domanda mondiale) e sulla politica monetaria e fiscale super espansiva varate negli Usa, dall’altro lato trova nella debole capacità di risposta produttiva da parte delle compagnie minerarie e petrolifere il reale driver.
Anni di sottoinvestimenti nel comparto uniti al basso livello dei magazzini, si stanno insomma facendo sentire sulla filiera che da una mera preoccupazione sugli aumenti dei prezzi è passata al nutrire autentico panico di reperimento del materiale. A questa già precaria situazione, dunque, non stupisce se il blocco al passaggio delle navi per il canale di Suez stia facendo saltare i nervi delle imprese. Sono infatti bastati appena due giorni di blocco del canale che collega il Mar Rosso al Mediterraneo per imprimere un’ulteriore accelerazione ai prezzi dello shipping e dei prodotti ferrosi. La domanda che a questo punto la comunità finanziaria inizia a porsi è quale potrebbe essere l’impatto in chiave inflazionistica di un aumento così forte dei prezzi a monte.
In realtà non molto se si considera che nelle economie sviluppate il cosiddetto pass-through dei prezzi delle commodities sull’inflazione è di appena il 15 per cento. L’impatto inflazionistico maggiore deriva invece dai primi segnali di tensione che emergono nel mercato del lavoro statunitense. Stando infatti all’ultima rilevazione di febbraio, la paga oraria nell’economia a stelle e strisce ha assistito a un aumento del 5,3 per cento su base annuale. La dinamica è particolarmente curiosa se si considera il lascito dei 10 milioni di disoccupati che la pandemia ha prodotto. Che cosa sta accadendo allora? Il problema è che i tre maxi piani di stimolo fiscale varati dall’amministrazione americana stanno di fatto disincentivando le persone a cercare lavoro, creando così una carenza di personale. L’allarme che è stato lanciato già lo scorso febbraio da Larry Summers in un editoriale sul Washington Post, sta agitando il sonno dei cosiddetti Bond Vigilantes, i grandi gestori obbligazionari, i quali in pochi mesi hanno iniziato a vendere titoli di stato facendone lievitare i rendimenti dallo 0,50 per cento della scorsa estate all’attuale 1,65 per cento. Della dinamica in atto la Federal Reserve e il Tesoro Usa non sembrano preoccuparsene molto, tanto è ferma la volontà di reflazionare il sistema e forse confidano anche nell’aumento della produttività aziendale che verrà generata dall’accelerazione tecnologica nata nel corso della pandemia. Ma la linea è molto sottile. Il braccio di ferro tra policymakers Usa e Bond Vigilantes è solo agli inizi ed è probabile che si acuirà nel corso dell’anno, prima che le strutturali pressioni deflazionistiche che da 40 anni premono al ribasso sui prezzi (invecchiamento popolazione, globalizzazione, robotizzazione, altro indebitamento degli Stati) tornino a farsi sentire.
Gianclaudio Torlizzi è direttore generale di T-Commodity srl
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