- Vengono meno tante cose: l'annuale catarsi di massa, lo sforzo per dimenticare alcune realtà e il vero spartiacque tra un anno e l'altro, tra impegni e fioretti (“smetto di fumare dopo il carnevale”).
- Se nessuno si era mai sognato di togliere il superponte ai brasiliani, stavolta quest'arma pesante verrà usata per ottenere un minimo di distanziamento sociale, in un momento ancora critico.
- L’impatto della festa mancata sull’economia di Rio: in migliaia hanno perso il lavoro mesi fa, altrettanti poveracci non potranno passare i giorni di baldoria a lavorare mentre gli altri festeggiano.
Nel mondo pre Covid c’era un’unica e remota ipotesi affinché il carnevale di Rio de Janeiro potesse non svolgersi. Ed era in un’opera di fantasia, parole e musica di Wilson das Neves. «Il giorno che la favela scenderà dalla collina, i fuochi d’artificio saranno con mitragliatrici, granate e fucili... e il popolo mostrerà la sua miseria, non quei costumi che si vedono sui giornali», sono tra i passaggi che il musicista scrisse per un brano struggente intitolato: O dia em que o morro descer e não for Carnava. Immaginava l’autore un carnevale di rabbia e rivolta, al posto di festa e allegria.
L’idea che prima o poi “quelli delle favelas” invaderanno la città “normale” viene in mente a qualsiasi turista che dalle famose spiagge alza gli occhi verso le colline circostanti, coperte di casupole come un presepe: «E se un giorno si incazzano e scendono?». Non è mai successo nella storia della città e, se mai avverrà, si può scommettere, non sarà durante la sacralità di un carnevale.
Lo scrittore Ruy Castro nel saggio Carnaval no fogo (tradotto da Guanda, 2007, Cronaca di una città troppo eccitante) racconta qualcosa di simile. Qualche anno prima, nel 2003, le gang dei narcos erano al culmine del potere a Rio. Alla vigilia del carnevale, in stile mafioso, obbligarono alcuni negozi ad abbassare le saracinesche, dopo aver incendiato autobus e seminato il panico. La città era pronta a ricevere 400mila turisti, gli hotel registravano il tutto esaurito, altissimo era il rischio di un flop mai visto prima.
Castro racconta che in una piazza di Ipanema, due ragazzotti mandati dai narcos ebbero la pessima idea di minacciare un supermercato proprio quando un piccolo gruppo carnevalesco stava iniziando la sua sfilata, a poca distanza. Tra le assordanti percussioni dei tamburi, la gente che cominciò a cantare, i venditori di birra gelata offrendo lattine, e gli stendardi al vento, i banditelli si ritirarono e tutto tornò alla normalità in questione di minuti. I negozi rimasero aperti, non volò una mosca per cinque giorni, e il carnevale del 2003 è ricordato come uno dei meglio riusciti di sempre.
Mai più i narcos minacciarono eventi a Rio de Janeiro, compresi un mondiale di calcio e una Olimpiade, per dire. Le feste popolari non si disturbano, così come i miti. Come quella volta che a Pelé i banditi restituirono orologio e portafogli con molte scuse, dopo che lo riconobbero in un assalto a un semaforo.
Il ponte facoltativo
Escludendo quindi una assai improbabile rivolta sociale e un calcolo sbagliato della malavita, solo una guerra termonucleare o una pandemia potevano fermare il carnevale di Rio. Ebbene, è successo. Come tante cose che erano poco immaginabili in tutto il mondo. Vero è che tutte le città turistiche si sono leccate profonde ferite negli ultimi dodici mesi, ma qui non è solo una questione di crollo dei fatturati. Vengono meno un sacco di cose: l’annuale catarsi di massa, lo sforzo per dimenticare una dura realtà di razzismo e diseguaglianze sociali, il vero spartiacque tra un anno e l’altro, tra impegni e fioretti (“smetto di fumare dopo il carnevale”), e persino scadenze finanziarie: “La prima rata solo dopo il carnevale”, come promettono nelle super offerte i venditori di auto e di case.
Passaggio dell’anno tanto fondamentale che tutta la città si chiede da mesi: d’accordo, c’è il virus, niente Sambodromo, sfilate e balli in maschera, ma almeno saranno giorni festivi? Seria questione, che ogni sindaco brasiliano sta tentando di dirimere fino all’ultimo, perché la cosa è maledettamente seria. Il carnevale in Brasile è un super ponte che inizia verso venerdì a ora di pranzo e finisce il mercoledì successivo, detto delle Ceneri, verso lo stesso orario. Come quei magici incastri tra Pasqua, 25 aprile e 1 maggio che le effemeridi e i geni del calendario combinano da noi, in alcuni anni favorevoli.
Qui invece succede tutti gli anni, e la gente si organizza per tempo. Ne derivano un sacco di scelte: ferie, vacanze scolastiche, la programmazione di gite, viaggi, visite ai parenti lontani, sistemare il cane in pensione e persino relax tra coppie fisse: cara, quest’anno ci si rivede dopo il carnevale, ok?
Nel 2021 il Brasile ha scoperto invece che il lunedì e martedì grasso non sono mai state festività nazionali scritte sulla pietra. E ancor meno religiose, ci mancherebbe.
Se da sempre in quei giorni non si lavora è solo grazie a una formula unica al mondo che si chiama ponto facultativo. Significa che il governo lascia alle aziende private o agli enti pubblici la decisione se i dipendenti debbano presentarsi al lavoro o no. Se mai nessuno in passato si è sognato di togliere il superponte di carnevale ad alcun brasiliano, stavolta quest’arma verrà usata per ottenere un minimo di distanziamento sociale, in un momento ancora critico. Tentativo disperato dopo oltre 230mila morti e la peggior performance al mondo sul Covid-19 (studio tra 98 paesi dell’australiano Lowy Institute), ma tant’è.
C’è qualcosa al mondo di più promiscuo del carnevale carioca? Anche sorvolando sul sesso, più immaginario che reale, occorre fare i conti con assembramenti unici, calche, urla, sudore, scambi di baci, abbracci e alitate di birra e cachaça. Il clima torrido non aiuta, anzi: pensiamo a cosa è successo a Manaus, capitale mondiale della seconda ondata e patria di una variante del Covid-19. Maschere o mascherine? Entrambe inutili contro il virus. I festeggiamenti, dunque, sono già stati cancellati mesi fa: niente sfilate delle scuole di samba, il megashow ufficiale, ma nemmeno “blocos”, il Carnevale popolare per le strade, o feste e balli in maschera, grandi e piccoli. Nulla di nulla, insomma.
Dopo averci rimuginato a lungo, il sindaco di Rio Eduardo Paes ha deciso che il martedì grasso (giorno 16) resterà festivo mentre il lunedì no. Due settimane prima aveva decretato invece per il lunedì il famoso ponto facultativo. Poi qualcuno deve avergli fatto notare che quattro giorni festivi di fila avrebbero di fatto creato un carnevale quasi normale, con spiagge piene, code per entrare e uscire dalla città, spostamenti di famiglie eccetera. Senza contare il rischio degli irriducibili, coloro che in barba a tutte le cancellazioni vorranno organizzare a tutti i costi feste e festini, con il sapore dolce del proibito. Anche l’idea di spostare il carnevale a luglio è durata lo spazio di un mattino. Il Brasile è assai indietro sulle vaccinazioni.
L’impatto economico
Davanti al suo chiosco, nel punto più iconico dei tramonti carioca, la spiaggia dell’Arpoador, chiacchieriamo con Marcus Wagner, l’organizzatore della festa di Carnevale più “in” dell’ultimo decennio, il ballo del Sarongue. Lo scorso anno, in questi giorni, in duemila si stavano letteralmente strappando di mano i biglietti, svuotando i negozi per il costume a tema: il retrofuturismo. Come tutto il mondo carnevalesco, per pochi giorni di festa o per un evento unico, Marcus lavora un anno intero. Stavolta si è fermato a giugno dell’anno scorso, quando ha capito che la pandemia non era una questione di mesi. «Ma ho quasi tutto pronto per il 2022», dice.
Il Sarongue è un evento esclusivo, ma rende un’idea di quanto una sola festa, tra migliaia, contribuisce all’economia della città. Lo scorso anno c’erano 90 musicisti, divisi in tre band, e 200 tra camerieri e addetti alla sicurezza. La notte ha fatturato 500mila reais, circa 90.000 euro.
Se dalla spiaggia dei ricchi ci spostiamo verso le periferie e le favelas, l’impatto del mancato Carnevale si fa ancora più forte. Sono decine di migliaia le persone che hanno perso il lavoro mesi fa. Pensiamo solo alle sarte dei 40-50.000 costumi che durano il tempo della sfilata al Sambodromo – un anno di lavoro per 75 minuti, e guai a sforare – alle migliaia di ambulanti che vendono birra e altrettanti poveracci che raccolgono le lattine vuote per venderle a peso. A parrucchieri, manicure, personal trainer legati al culto del corpo perfetto. Poi ci sono gli alberghi e ristoranti, certo, e le agenzie di turismo. Ma fin qui Rio de Janeiro è una città normale.
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