- La Cina di Xi Jingping prende il posto della Russia di Vladimir Putin come principale antagonista della democrazie occidentali e della “famiglia transatlantica” nel rinnovato dossier della Nato per il 2030, ma dimentica sotto un tappeto la Turchia neo-ottomana di Recep Tayyip Erdogan.
- La Cina «non condivide i nostri valori», ha sottolineato il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, in scadenza di mandato e quindi più libero di dire le cose che pensa realmente, a margine del vertice dell’alleanza a Bruxelles.
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Un obiettivo chiave della politica estera di Joe Biden è sostenere il contenimento dei regimi autoritari. Vista da questa prospettiva democratica americana, la Turchia rischia di diventare più di una nota stonata nelle sfide strategiche affrontate dagli Stati Uniti e dai suoi alleati Nato.
La Cina di Xi Jinping prende il posto della Russia di Vladimir Putin come principale antagonista della democrazie occidentali e della “famiglia transatlantica” nel rinnovato dossier della Nato per il 2030, ma dimentica sotto un tappeto la Turchia neo-ottomana di Recep Tayyip Erdogan, condannata per la prima volta dallo stesso Joe Biden per il negazionismo sul genocidio degli armeni da parte dell’impero Ottomano nel 1915 e la repressione interna praticata da Ankara nei confronti dell’opposizione democraticamente eletta e rappresentata nel parlamento. Perché questo doppio standard Nato sul rispetto dei diritti umani verso i governi autocrati?
La Cina «non condivide i nostri valori» e «mi aspetto» che, nel comunicato finale del vertice Nato, gli alleati «concordino sul linguaggio»per avere, per la prima volta, una «posizione chiara» degli alleati sul paese del Dragone, finora poco presente nell’agenda dell’Alleanza atlantica, ha sottolineato il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, in scadenza di mandato e quindi più libero di dire le cose che pensa realmente, a margine del vertice dell’alleanza a Bruxelles.
Aspettative diverse
La dottrina geopolitica di Biden, che potremmo definire in estrema sintesi “America is back”, l’America è tornata, in contrapposizione alla “America first” di Trump, è concentrata sulla rivalità dell’occidente con Cina e Russia, e un obiettivo chiave della politica estera è sostenere il contenimento dei regimi autoritari, tra cui la speaker democratica della Camera, Nancy Pelosi, ha inserito dopo Cina, Russia e Corea del nord anche la Turchia di Erdogan.
Vista da questa prospettiva democratica americana, la Turchia rischia di diventare più di una nota stonata nelle sfide strategiche affrontate dagli Stati Uniti e dai suoi alleati Nato.
Un po’ di chiarezza non farebbe male. Non si può dimenticare che Erdogan è al potere come presidente dal 2014, sebbene sempre eletto con il voto, e non ha esitato ad usare il pugno di ferro per reprime a manganellate ed arresti le proteste ambientaliste e giovanili di Gezi Park.
Non a caso proprio Biden, desideroso di promuovere le libertà democratiche in patria e all’estero, in passato ha dichiarato la sua intenzione di sostenere l’opposizione politica in Turchia dove da ultimo il sindaco laico di Istanbul Ekrem Imamoglu rischia una pena di 4 anni e un mese per aver «insultato» la commissione elettorale che aveva annullato la sua prima vittoria.
Il doppio standard Nato
«La Cina – ha aggiunto Stoltenberg – non condivide i nostri valori: vediamo la repressione a Hong Kong, la persecuzione delle minoranze nel loro paese e anche l’uso della tecnologia moderna, come i social media e il riconoscimento facciale, per monitorare e sorvegliare la popolazione, in modo che non abbiamo visto prima».
Il processo Kobane
Ma Stoltenberg rischia di essere accusato di strabismo se nel condannare la Cina per la mancanza di rispetto dei diritti umani non dovesse ricordare che la Turchia di Erdogan ha molti dossier aperti sullo scottante tema. Per non dimenticare la disinvolta e incauta acquisizione turca dei missili S-400 russi al posto dei Patriot americani da parte di un membro Nato.
Basterebbe ricordare al segretario della Nato che ieri è ripreso nel tribunale del carcere di Sincan, ad Ankara, il maxi-processo Kobane contro 108 politici curdi in Turchia, 28 dei quali attualmente detenuti, che rischiano l’ergastolo con accuse di “terrorismo” per le proteste dell'ottobre 2014 nel sudest del paese contro l’isolamento imposto dal governo Erdogan alla città curdo-siriana, simbolo della lotta all’Isis e all’epoca sotto assedio.
I curdi sono stati gli alleati sul terreno della “famiglia transatlantica” contro i tagliagole dell’Isis mentre nessuno dei paesi Nato voleva mandare truppe nell’area.
Decine di migliaia di manifestanti scesero in piazza in varie città turche contro la chiusura della frontiera meridionale, che impediva l’invio di soccorsi militari e umanitari per la lotta al gruppo jihadista.
Gli scontri con le forze di sicurezza provocarono almeno 37 vittime, in gran parte dimostranti curdi. Alla sbarra ci sono alcuni dei massimi dirigenti dell’Hdp, tra cui gli ex co-leader Selahattin Demirtas e Figen Yuksekdag, già detenuti da oltre 4 anni e mezzo.
Nelle purghe seguite al fallito golpe del 2016 in Turchia, l’Hdp ha subìto l’arresto di migliaia di esponenti e la destituzione di decine di sindaci e parlamentari. La procura generale della Cassazione di Ankara, dopo varie sollecitazioni di nazionalisti dell’Mhp, gli eredi dei Lupi Grigi, ha presentato una richiesta alla Corte costituzionale per chiederne la messa al bando, un partito che rappresenta la quarta formazione del paese dopo il filo-islamico l’Akp, il socialdemocratico Chp e il nazionalista Mhp.
È democratico questo comportamento o dobbiamo far finta di niente per una rinnovata versione di realpolitik?
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