- Ucciso da un drone l’ideatore della carneficina all’aereoporto di Kabul, chi altro dovrebbe temere la punizione promessa da Biden? I rimasugli dell’Isis Khorasan nascosti al confine con il Pakistan? E soltanto loro o anche altri?
- L’Afghanistan è forse uno dei pochi luoghi del mondo dove la storia si presenta quasi sempre come intrigo, complotto labirintico; dove nulla è ciò che appare. Era così anche ai tempi del “Kim” di Kipling, figuriamoci in una fase che vede accorrere tutti i servizi segreti dell’area.
- L’altra avvertenza da non dimenticare: al contrario del terrorismo europeo, le organizzazioni armate non sono compartimentate e mancano di una precisa identità ideologica che impedisca joint venture con organizzazioni rivali.
Ucciso da un drone l’ideatore della carneficina all’aereoporto di Kabul, chi altro dovrebbe temere la punizione promessa da Biden? I rimasugli dell’Isis Khorasan nascosti al confine con il Pakistan? E soltanto loro o anche altri, omessi per ragioni di opportunità dal presidente americano?
In merito la sparsa setta degli specialisti in Talebani (nel mondo forse una ventina, tra ricercatori e giornalisti asiatici) è circospetta, come di solito i pochi che sanno quando si discute di misteri afghani. Davvero l’Isis e tutti i Talebani sono tra loro nemici? Alcuni dubitano.
Il più esplicito, Sajjan Gohel, visiting professor della London school, mette in guardia: attenzione, l’Isis è in stretti legami con l’Haqqani network, la più poderosa struttura militare dei Talebani, quella che ha preso Kabul. Con il massacro dell’aeroporto i Talebani, aggiunge Gohel, raggiungono due scopi: obbligano gli occidentali a sgomberare entro la data limite del 31 agosto e scoraggiano la fuga di afghani che intendono riutilizzare nell’amministrazione. E soprattutto, si potrebbe aggiungere, ora i Talebani possono presentarsi ai creduli come coloro che contrasteranno il terrorismo anti-occidentale.
Intrighi e complotti
Verosimile come altre ipotesi, e come quelle non provata, questa ha il pregio di chiarire due punti al momento ignorati dal centinaio di giornalisti italiani che adesso discetta di Talebani con una sicurezza invidiabile.
La prima: non è un caso se i russi battezzarono “Il torneo delle ombre” quello scontro tra imperi per l’egemonia in Asia centrale chiamato dai britannici “Il grande gioco”.
L’Afghanistan è forse uno dei pochi luoghi del mondo dove la storia si presenta quasi sempre come intrigo, complotto labirintico; dove nulla è ciò che appare. Era così anche ai tempi del “Kim” di Kipling, figuriamoci in una fase che vede accorrere tutti i servizi segreti dell’area – dai pakistani agli indiani, dagli iraniani ai cinesi, ai russi, agli occidentali. L’altra avvertenza da non dimenticare: al contrario del terrorismo europeo, le organizzazioni armate non sono compartimentate e mancano di una precisa identità ideologica che impedisca joint venture con organizzazioni rivali. Per citare Gohel, «la cruda realtà di terrorismo e politica in Afghanistan è che la situazione non è mai bianco o nero. Nemici giurati possono combattersi un giorno e collaborare il giorno successivo per un mutuo profitto. I gruppi sono intrecciati e interconnessi. Legami tribali e matrimoniali assicurano che le loro differenze ideologiche non provochino linee di frattura».
Se non bastasse, a garantire che l’area resti un continuum concorrono triangolazioni arabe e pakistane. Ricchi finanziatori, servizi segreti, partiti fondamentalisti, circoli teologici. Non c‘è una cabina di regia regionale, un centro che coordini le azioni secondo una strategia coerente. Ma in assenza della mitologica “testa del serpente”, qualunque pezzo del micidiale rettile gli occidentali taglino, ricrescerà.
L’Haqqani network
Un buon esempio di tutto questo è l’Haqqani network, l’alleato del servizio segreto pakistano (Isi) col quale forse Islamabad è riuscita a “scalare” il movimento dei Talebani, o perlomeno a comprimerne il nucleo fondatore, quello del mullah Omar.
Gli Haqqani sono i laureati nel più grande seminario islamico del Pakistan, l’Haqqania. Il figlio del fondatore e direttore dell’Haqqania fino alla scorsa decade era un senatore fondamentalista chiamato dagli adulatori “padre dei Talebani”.
Costretto alle dimissioni quando la tenutaria di un bordello di Islamabad lo indicò tra frequentatori, era in attesa di partecipare a una dimostrazione per sollecitare l’impiccagione di Asia Bibi (una contadina pakistana e cattolica madre di cinque figli accusata di blasfemia) quando subì a sua volta la pena di morte, comminata non si sa da chi ed eseguita dall’ignoto sicario che lo sbudellò in casa con una mannaia.
Nell’Haqqania si insegna l’islam Deobandi, un credo stralunato che nasce nel Punjab ma viene fatto proprio dai Talebani, essendo il più prossimo al Pashtunwali, il tradizionale codice di comportamento dei contadini pashtun a cavallo tra Afghanistan e Pakistan. Il fondatore dell’Haqqani network, Jalaluddin, fu leggendario comandante nella guerra contro i sovietici, e finché impalava le teste mozze di soldatini nemici sul fronte di Jelalabad al fianco di Osama, era un “combattente per la libertà” lodato perfino dalla Casa Bianca.
Ma dopo l’11 settembre le interconnessioni tra al Qaeda e l’Haqqani network costrinsero gli americani a un drastico ripensamento. Messo in salvo Osama, Jalaluddin si trasferì in Pakistan, nel Waziristan settentrionale, da cui la banda lanciava mortali scorribande in Afghanistan.
I kamikaze di Sirajuddin
Al vertice del network si insediò l’ex ministro dei Talebani Sirajuddin, figlio di Jalaluddin e, circostanza non casuale, di una saudita. Già ministro dell’emirato, fu anche ministro nel governo dei Talebani. Sirajuddin importò dall’Arabia amica un’arma fino ad allora sconosciuta agli afghani, i kamikaze, e ne perfezionò il metodo: adolescenti che avevano visto familiari uccisi dai droni americani venivano incitati al dovere della vendetta e acquartierati in case le cui pareti anticipavano le delizie del paradiso con vivide pitture (pezzi forti di quel trailer murale: sorgenti d’acqua e urì).
I kamikaze di Sirajuddin sterminarono umani a centinaia, incluse tre impiegate della Croce rossa e infinità di bambini. Nel 2011, dopo un attacco all’ambasciata degli Stati Uniti a Kabul, l’ammiraglio Mullen accusò: il network «è il vero bracco dell’Isi». In termini meno rudi l’avevo detto due anni prima ad alti ufficiali dell’Isi e quelli non avevano fatto una piega.
Del resto Sirajuddin rappresentava obiettivamente un asset. Il network è il crocevia di tutto. Ha strette relazioni con al Qaeda, con i tremila guerrieri arrivati dall’Uzbekistan, con i partiti fondamentalisti pakistani e le loro diramazioni armate, con la filiera che produceva stagionali della guerriglia (estate in Kashmir, inverno in Afghanistan), con i finanziatori sauditi, con vertici militari pakistani, perfino con i misteriosi cugini del Tpp, i Talebani pakistani.
No-vax radicali (ammazzano le ragazze che praticano le vaccinazioni anti-polio) quelli del Tpp hanno combattuto gli americani in Afghanistan ma anche l’esercito pakistano nel sud Waziristan, cui rifiutano obbedienza. Quando, dopo molte e inconcludenti stragi, Islamabad ha capito che non avrebbe vinto, è stato Sirajuddin a organizzare il negoziato del precario armistizio. In seguito parte del Tpp è confluito nell’Isis Khorasan, mantenendo una comunicazione con lo spionaggio pakistano (lo ipotizza il talibanologo Antonio Giustozzi).
Possono ora gli occidentali rinunciare al dialogo con Sirajuddin, l’uomo forte dei Talebani, solo perché ammazza crocerossine e bambini? Certo che no. All’inizio dell’anno, in un ennesimo rimescolamento dei ruoli, il New York Times ha pubblicato un articolo a firma Sirajuddin Haqqani, probabilmente scritto da qualche apparato pakistano.
È stato l’esordio, con benedizione dell’amministrazione Trump, del Sirajuddin dialogante. Se questo è il pragmatico col quale occorrerà misurarsi appena conclusa la rotta da Kabul, gli occidentali farebbero bene a negoziare tenendo la mano sulla pistola.
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