- Pechino non poteva continuare a non schierarsi nelle plurime crisi del Corno d’Africa dove ha molto investito
- Proverà ad implicare tutti gli attori in grandi programmi transfrontalieri per favorire la stabilità regionale
- Dovrà tuttavia affrontare i rischi connessi con l’entrata nel campo controverso della politica africana, a costo di scontentare qualcuno
Con la guerra in Ucraina la deglobalizzazione avanza a passi celeri e anche la Cina deve adattarsi. Pechino cambia la sua dottrina tradizionale, quella del non immischiarsi mai negli affari interni dei paesi con cui commercia, perché non è più sicura che l’ambiente internazionale continui automaticamente ad essere favorevole per i suoi investimenti.
Di conseguenza occorre dare qualcosa di più, offrire aiuti e garanzie politiche che fino ad ora erano esclusi a priori. Un esempio recente è l’Africa australe in cui i cinesi hanno molto investito, particolarmente nel Corno. L’inviato speciale Xue Bing, ha recentemente visitato sei paesi della regione in marzo, dove Pechino si appresta ad aumentare il proprio impegno finanziario ed infrastrutturale, tanto necessari per lo sviluppo dei rami africani della Nuova Via della Seta.
La situazione securitaria tuttavia rappresenta una vera minaccia: guerra interna in Etiopia; crisi in Sudan; attriti tra Khartoum e Addis Abeba; isolamento crescente dell’Eritrea; contenzioso sulla grande diga Gerd tra Egitto ed Etiopia ecc. Inoltre Pechino ha creato la sua prima base militare all’estero proprio nella vicina Jibuti (ora sta pensando ad una seconda nelle Isole salomone provocando uno scontro molto acceso con l’Australia, supportata dagli Stati Uniti). Ecco perché il 20 marzo scorso la Cina ha annunciato che organizzerà una conferenza di pace con gli Stati africani coinvolti nelle varie crisi. Il Kenya e la stessa Etiopia hanno subito reagito positivamente a tale iniziativa, dichiarandosi disposti ad ospitare le varie sessioni della prevista conferenza.
La conferenza
A sostegno di tale iniziativa politica, una prima assoluta per Pechino, la Cina si è detta disposta ad inviare «ingeneri, ricercatori ma non armi, allo scopo di contrastare la povertà e contribuire alla risoluzione dei problemi infrastrutturali», secondo le parole dell’inviato speciale.
Con “problemi infrastrutturali” si intende chiaramente la questione della diga. In questo modo la Cina abbandona la sua tradizionale riservatezza e scende nel campo controverso della politica africana: alle condizioni geopolitiche attuali ha capito che non le è più possibile mantenersi in un atteggiamento di stretta neutralità di fronte alle crisi regionali.
Per proteggere i propri investimenti Pechino si vede costretta a provare ad intervenire politicamente, a costo di doversi schierare scontentando qualcuno. Alla conferenza dovrebbero essere invitati otto paesi: l’Etiopia, l’Eritrea, la Somalia, Jibuti, il Kenya, l’Uganda, il Sudan e il Sudan del Sud. «Noi pensiamo -ha dichiarato ancora Xue Bing sulle pagine del South China Morning Post- che questa regione conosca numerose difficoltà, sia che si tratti di contenziosi frontalieri o di conflitti etnici e religiosi, e che questi problemi debbano essere risolti, pena l’assenza di qualuque tipo di sviluppo. La Cina vuole giocare un ruolo in questa zona, promuovendo sicurezza, sviluppo e la buona amministrazione (good governance nel gergo internazionale)».
Ci si chiede come farà Pechino ad armonizzare il rispetto per la sovranità degli Stati (principio che difende da sempre nell’agorà internazionale) con l’intervento politico nel quadro di una mediazione che coinvolge situazioni complicate e molto diverse tra loro. Certamente l’approccio sarà prudente, iniziando con il sostegno a soluzioni locali (african solutions for african problems).
Tuttavia invitare un numero così alto di paesi significa anche optare per soluzioni globali a problemi locali: certamente i cinesi cercheranno di influire con promesse di ingenti investimenti transfrontalieri che coinvolgano tutti in grandi progetti interregionali con la speranza di spegnere i conflitti.
In passato ci sono stati casi eccezionali in cui la Cina ha dato il suo contributo per la pacificazione in Africa, come ad esempio tra il 2003 e il 2006 in Darfur quando si trattò di reagire alle pressioni della comunità internazionale ed evitare accuse di inerzia. Ma ora la guerra in Ucraina e le sue conseguenze sul mercato dell’energia e delle derrate alimentari, spingono anche Pechino ad essere proattiva.
La fine della globalizzazione significa che le filiere si accorciano e che ogni potenza deve curare i “suoi” amici per continuare a proteggere le proprie vie di rifornimento. Gestire i conflitti è tuttavia un compito assai complesso in cui i cinesi hanno poca esperienza e in cui si rischia ad ogni passo -specie se si tratta di grandi potenze- l’accusa di ingerenza.
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