La nuova legge sulla sicurezza nazionale mira a reprimere il dissenso ma Bruxelles denuncia la violazione di diritti e libertà fondamentali
- La nuova legge sulla sicurezza nazionale di Hong Kong prevede per i reati di “eversione”, “separatismo”, “terrorismo”, e “collusione con potenze straniere” pene fino all’ergastolo.
- Le sanzioni sono destinate ad accrescere le tensioni tra Cina e occidente. La leadership di Xi Jinping infatti le giudica «interferenze» in questioni che riguardano la sua sovranità nazionale e integrità territoriale.
- La leadership del Partito comunista cinese spera di aver trovato la quadratura del cerchio, con l’instaurazione di una governance “depoliticizzata” per Hong Kong, simile a quella dell’amministrazione coloniale britannica.
I biglietti per la prima di Red Brick Wall, in programma la settimana scorsa al cinema Golden Scene di Hong Kong, erano andati esauriti in un’ora.
Ma è bastato un editoriale del quotidiano pro-Pechino Wen Wei Po, che invitava il governo guidato da Carrie Lam a vietare il documentario sull’assedio della polizia al politecnico nel novembre 2019, a costringere gli organizzatori ad annullare la proiezione. Altrimenti sarebbero potuti incappare nella Legge sulla sicurezza nazionale di Hong Kong varata l’estate scorsa dall’Assemblea nazionale del popolo (Anp), che per i reati di “eversione”, “separatismo”, “terrorismo”, e “collusione con potenze straniere” prevede pene fino all’ergastolo.
Con quelle norme è stata neutralizzata l’ala militante del movimento della città ribelle della Cina, mentre la riforma del sistema elettorale che verrà approvata la settimana prossima dal Comitato permanente dell’Anp servirà a impedire all’opposizione di far valere le sue istanze nel Consiglio legislativo. I seggi del parlamento della regione amministrativa speciale di Hong Kong (Hksar) passeranno da 70 a 90, i rappresentanti eletti direttamente dal popolo saranno ridotti da 35 a 20. Tutti gli altri saranno nominati da organismi controllati indirettamente o direttamente da Pechino.
Alla vigilia del primo incontro (la settimana scorsa in Alaska) tra il governo di Pechino e l’amministrazione Biden, gli Stati Uniti hanno decretato restrizioni finanziarie e agli spostamenti all’estero contro 14 alti funzionari cinesi per quella che il segretario di Stato, Antony Blinken, ha definito una «decisione unilaterale di minare il sistema elettorale di Hong Kong». Intanto l’Unione europea si appresta, il mese prossimo, a denunciare la violazione da parte di Pechino del principio “Un paese, due sistemi” che stabilisce che, fino al 2047, a Hong Kong non possa essere applicato il sistema socialista e che vi debbano essere garantite le libertà e i diritti fondamentali.
Ribellione a Hong Kong
Le sanzioni sono destinate ad accrescere le tensioni tra Cina e occidente. La leadership di Xi Jinping infatti le giudica «interferenze» in questioni che riguardano la sua sovranità nazionale e integrità territoriale. La legge sulla sicurezza nazionale e la riforma elettorale rispondono alla strategia di riportare una delle regioni più turbolente e remote dal centro sotto il controllo politico di Pechino esautorando, di fatto, autorità locali nelle quali la leadership del Partito comunista non ripone più alcuna fiducia. Una linea – dettata dal vertice del Pcc – ufficializzata dal IV Plenum del XIX Comitato centrale (28-31 ottobre 2019).
L’ultima ondata di proteste a Hong Kong era esplosa nel giugno 2019, innescata da un disegno di legge di Carrie Lam (poi ritirato) per l’estradizione nella Cina continentale di sospetti criminali. Ne era scaturito un movimento di massa che ha contestato nelle piazze l’autorità della Repubblica popolare cinese sulla Hksar, con parole d’ordine come “suffragio universale” (previsto come «fine ultimo» dalla costituzione), e slogan indipendentisti come “Liberare Hong Kong, la rivoluzione dei nostri tempi”, con l’assalto del primo luglio al Consiglio legislativo e violenze che hanno gettato una luce sinistra su uno spazio politico polarizzato, contrassegnato dai colori utilizzati ovunque per marcare i rispettivi territori: il giallo del campo democratico e il blu dell’establishment. Ci sono stati centinaia di arresti e decine di processi, tuttora in corso.
Il movimento era riuscito a dimostrare che a Hong Kong non esisteva alcuna maggioranza silenziosa pro-Pechino, quando il 24 novembre 2019, nelle elezioni locali a suffragio universale, i partiti legati alla protesta avevano conquistato 17 dei 18 distretti in cui è divisa la metropoli finanziaria.
L’anomalia
Nella Repubblica popolare cinese la regione di Hong Kong rappresenta da sempre un’anomalia, rifugio di associazioni per i diritti umani, dissidenti, sindacalisti. Un territorio non circondato dalla grande muraglia della censura digitale cinese, dove i movimenti anti-Pechino si sono susseguiti a ondate.
Il primo luglio 2003, un corteo di mezzo milione di persone riuscì a bloccare il varo di una legge liberticida sulla sicurezza nazionale. Nel settembre 2012, migliaia di giovanissimi assediarono per dieci giorni di fila il governo locale, costringendolo a ritirare la direttiva sulla “educazione nazionale”, ovvero l’insegnamento nelle scuole della storia e dei valori promossi dal Partito comunista cinese. Infine nel 2014, il Movimento degli ombrelli occupò per 79 giorni consecutivi il centro della città, chiedendo invano il suffragio universale.
Oggi il rock e il rap, le parole d’ordine durante i cortei, lo stile di vita dei giovani della classe media locale riflettono più che mai una forte identità hongkonghese, talvolta esasperata in opposizione al modello politico-sociale di una Cina continentale nella quale temono di essere gradualmente inglobati. Tra gli attivisti c’è chi ha provato a fuggire a Taiwan a bordo di un gommone (per finire interrogato per settimane, in località segrete, nella confinante Shenzhen) e chi si è rifugiato in Europa o negli Stati uniti.
Secondo il Partito comunista, le rivendicazioni del movimento sono alimentate da potenze straniere, per dividere la Cina. Ma i giovani di Hong Kong esprimono un malessere anche sociale. L’economia locale è crollata: nel 1997 generava il 16 per cento del pil della Repubblica popolare cinese, nel 2018 il 3 per cento. Le disuguaglianze sono acute, con l’economia in mano ai costruttori e ai proprietari dei terreni. I prezzi degli appartamenti alle stelle: per una giovane coppia è impossibile acquistare casa contando sui propri stipendi. Dopo il varo della Legge sulla sicurezza nazionale, con la riforma del sistema elettorale, la leadership del Partito comunista cinese spera di aver trovato la quadratura del cerchio, con l’instaurazione di una governance “depoliticizzata” per Hong Kong, simile a quella dell’amministrazione coloniale britannica.
Come per la Cina continentale, la ricetta di Xi e compagni per Hong Kong è stabilità ed efficienza dell’azione di governo, grazie alle quali sarà possibile risolverne i profondi squilibri socio-economici. Ma a quale prezzo saranno tenute fuori dal gioco politico masse di giovani istruiti e battaglieri che da anni reclamano maggiore rappresentanza?
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