- Quando pochi giorni dopo la visita di Xi a Mosca le truppe russe hanno varcato il confine ucraino, in molti si sono chiesti se i cinesi non ne fossero già informati.
- È ora invece chiaro a Pechino che l’asse con Mosca costa troppo, e che è più saggio muoversi verso una nuova “diplomazia pacifica”. Come sembra aver improvvisamente capito anche il sempre “patriottico” Global Times: la Cina è una forza per il progresso e non crede nella trappola di Tucidide.
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Nel marzo dello scorso anno, a poco meno di un mese dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, Sun Liping – ex professore di Sociologia all’università Tsinghua, e tra le voci più lucide del campo liberale nella Cina di Xi Jinping – metteva in guardia il governo di Pechino da controproducenti eccessi di zelo nel sostenere l’operazione speciale di Putin. «Si apre l’èra dei due post, post-epidemia e post-globalizzazione e si va verso una riorganizzazione dell’ordine internazionale. In questa fase ci sarà posto solo per le grandi potenze; la Russia non lo è, e sarà dunque domani quel che è l’Ucraina oggi».
Sottolineando impietosamente che l’economia russa equivale a quella della provincia del Guangdong, Sun invitava il Partito comunista a non celebrare l’avventura putiniana come uno scacco all’occidente, ma anzi a considerare seriamente la possibilità che una vasta coalizione antirussa potesse servire come piattaforma per il contenimento di altri rivali strategici nel futuro prossimo, indebolendo così le chance della Repubblica popolare di giocare un ruolo globale nei decenni a venire. L’articolo è stato velocemente oscurato dalle autorità cinesi, eppure le argomentazioni di Sun non sembrano così distanti dalle linee strategiche gradualmente riarticolate dal Pcc nei mesi successivi, mentre il sogno russo di una rapida vittoria si perdeva nel pantano.
Il “disallineamento”
A maggio, un rapporto dell’Università Renmin denunciava il «grande accerchiamento» (formula che ricordava le cinque campagne di accerchiamento realizzate dai nazionalisti contro i comunisti negli anni Trenta) pianificato dagli Usa per contenere Pechino. Secondo Wu Xinbo dell’Università Fudan, ne sarebbe stata una prova l’assonanza tra le sanzioni occidentali alla Russia e la competizione strategica con Pechino: la strumentalizzazione dell’interdipendenza attraverso l’applicazione di criteri di sicurezza alle relazioni economiche; la trasformazione di “public goods”, ovvero il dollaro e i sistemi di pagamento Swift, in armi geopolitiche; infine, il ritorno dell’ideologia – o meglio dei “valori” – come elemento discriminante. L’uso di questi strumenti contro Pechino avrebbe avuto un impatto di gran lunga maggiore per le sorti dell’economia cinese, e ciò consigliava prudenza.
Il “disallineamento” sembrò confermato il 14 giugno, quando Le Yucheng – esperto di Russia vicinissimo a Xi e papabile ministro degli Esteri, ideatore della formula del sostegno “senza limiti” – è stato declassato da viceministro degli Esteri a vicecapo della tv. A ciò si è aggiunto, nel corso dello stesso mese, la beffa subita da Li Zhanshu, membro del Comitato permanente del Pcc in visita in Russia, allorché la televisione di stato russa aveva pubblicato solo la parte favorevole del suo discorso, promuovendo artificiosamente l’immagine di una grande sintonia tra Mosca e Pechino anche sul fronte ucraino.
Le proteste cinesi – e la freddezza di Xi nell’incontro con Putin a Samarcanda a metà settembre – hanno evidenziato la crescente dissonanza. Un raffreddamento confermato non solo dal mancato sostegno militare diretto cinese (mai stato in realtà sul tavolo), ma anche da un linguaggio ufficiale in cui le accuse alla Nato sembrano cedere il passo ai richiami alla difesa della pace (si veda il discorso di Capodanno di Xi) e alla difesa della “sovranità”.
Questa fluidità non è anomala, è anzi caratteristica di un rapporto sfuggente e spesso enigmatico (soprattutto agli occhi degli osservatori esterni) che affonda le sue radici nella storia di un vicinato mai facile. Jo Inge Bekkevold, diplomatico norvegese, riassume la relazione tra Mosca e Pechino in questo modo: «Durante il secolo scorso, la Cina ha visto la Russia come imperialista, compagno d’armi, nemico e partner, e ora sta discutendo se debba essere un alleato».
Sospetti e cooperazione
E d’altronde i rapporti tra due imperi confinanti non possono non nutrirsi di sospetti e di cooperazioni più obbligate che convinte. Se nel corso dell’Ottocento, approfittando della crescente debolezza della dinastia mancese e spesso accodandosi alla tenaglia imperialista europea, la Russia ha sequestrato alla Cina un territorio grande quasi due volte quello dell’attuale Ucraina (come ha sottolineato nel 2020, in occasione del 160° anniversario della fondazione di Vladivostok, un giornalista della televisione di stato cinese), l’ordine mondiale della Guerra fredda ha reso obbligata la scelta della neonata Repubblica popolare cinese di “pendere” verso l’Unione sovietica. Già nel 1949 Mao si è precipitato a Mosca per siglare un’alleanza con Stalin, ma le fonti ci dicono oggi che la luna di miele è durata molto meno di quanto celebrasse la propaganda.
L’iniziale diffidenza del Grande timoniere nei confronti delle eccessive ingerenze (e del “senso di superiorità”) del Cremlino era destinata a trasformarsi nell’ossessione di un sostegno di Mosca a un golpe interno al Pcc. Come racconta Julia Lovell nel suo Maoism, a global history attraverso gustosi aneddoti (da Khruschev, che non sapeva nuotare, obbligato dal Grande timoniere a un umiliante bagno in piscina in braccioli, alle delegazioni sovietiche ospitate in fatiscenti scantinati), alla fine degli anni Cinquanta la principale preoccupazione di Mao era diventata quella di smarcarsi dall’Urss e proporsi come nuovo centro del movimento socialista internazionale. Il radicalismo degli anni Sessanta – condito da slogan anti-imperialisti rivolti ormai in egual misura contro Washington e Mosca – ha spinto la Cina all’isolamento, e le tensioni con il vicino sono sfociate in un confronto militare diretto nel 1960.
Gli anni Settanta hanno visto l’inatteso riavvicinamento con gli Usa di Nixon e l’avvio delle riforme con cui Deng Xiaoping ha seppellito l’utopia maoista, mentre nei confronti di Mosca permaneva una ostile freddezza, spesso trasfusa in conflitti “indiretti” sul complesso scacchiere del sud-est asiatico.
Dopo il collasso dell’Unione sovietica – che ancora serve alla leadership comunista cinese come spettro storico e “modello negativo” – e la hubris egemonica occidentale del nuovo millennio, la crisi finanziaria americana del 2007-2008 cui l’economia cinese ha resistito tenacemente, sembrò segnalare a Pechino la fine della “illusione unipolare”, e inaugurare un periodo di opportunità strategiche che ha spinto – soprattutto sotto la presidenza Xi – a ritrovare la Russia come partner utile in chiave anti-egemonica.
Una nuova diplomazia pacifica
In questo quadro, quando pochi giorni dopo la visita di Xi a Mosca le truppe russe hanno varcato il confine ucraino, in molti si sono chiesti se i cinesi non ne fossero già informati. Diversi analisti cinesi vicini al potere hanno interpretato favorevolmente le azioni russe: avrebbero distorto l’attenzione americana da Taiwan e, in caso di successo russo, accelerato il declino, per alcuni inesorabile, della potenza americana.
Ne è derivato quell’iniziale neutralismo pro-russo – astensione all’Onu, supporto verbale a Mosca e accuse a Nato e Usa di aver provocato il conflitto – basato anche sulla precaria sintesi tra una maggioranza del Partito convinta che la neutralità avrebbe beneficiato maggiormente il paese e una pro-russa probabilmente maggioritaria nel “cerchio magico” di Xi.
È ora invece chiaro a Pechino che l’asse con Mosca costa troppo, e che è più saggio muoversi verso una nuova “diplomazia pacifica”. Come sembra aver improvvisamente capito anche il sempre “patriottico” Global Times: la Cina è una forza per il progresso e non crede nella trappola di Tucidide. Ciò non toglie che Pechino cercherà di massimizzare il suo guadagno, sia dall’infiacchimento militare dell’occidente dopo un anno di sostegno all’Ucraina, sia dal rapporto con una Russia declinante (e, secondo le analisi più estreme, in procinto di essere “colonizzata” dalla Cina).
Come hanno scritto recentemente Andrew Erickson e Gabriel Collins, l’impatto finanziario delle sanzioni potrebbe spingere la Russia a dipendere sempre più da Pechino favorendo la disponibilità di Mosca a condividere le sue più importanti tecnologie militari con i cinesi, con conseguenze immediate per gli equilibri di sicurezza regionali e globali. Basti dire che l’accesso agli aeroporti russi, o magari alle basi missilistiche russe nell’Artico, potrebbe permettere a Pechino di allargare il raggio di azione militare e aumentare profondamente la sua capacità di deterrenza nucleare nei confronti degli Stati Uniti.
Insomma, se la crescente debolezza russa, il rafforzarsi del contenimento anticinese dell’occidente e le difficoltà economiche e sociali interne suggeriscono a Pechino di enfatizzare la coerenza e la virtuosità del suo “neutralismo” e rimarcare le distanze da Mosca, le strette di mano con il Cremlino possono portare vantaggi in preparazione del “grande gioco” tra le (vere) potenze di domani.
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