-
Le recenti risoluzioni del parlamento europeo forniscono dettagli sulle gravi violazioni e detenzioni di massa attuate dal governo di Pechino nei confronti della minoranza uigura nello Xinjiang.
-
Attraverso tecnologie di sorveglianza digitale, il modello cinese rappresenta la frontiera della nuova discriminazione hi tech che si sta diffondendo su scala mondiale.
-
Il testo fa parte del numero di Scenari: “Alla corte di Xi Jinping”, in edicola e in digitale dal 12 agosto.
Non conosce soste lo sviluppo dello stato nazionale di sorveglianza da parte del Partito comunista cinese. Nella definizione maggiormente in voga, si tratta di un complesso sistema di infrastrutture hardware e software in grado di sorvegliare la popolazione e produrre sofisticate politiche di discriminazione high-tech ai danni delle minoranze.
Più volte abbiamo affrontato il tema, sottolineando la pericolosità delle iniziative di Pechino sia sul piano interno, ma anche su quello globale. È infatti ben nota l’intraprendenza del regime cinese nell’esportare i suoi prodotti che influenzeranno così anche le politiche di altri paesi.
La risoluzione del 2020
Già nella risoluzione del 17 dicembre 2020 dal titolo “Lavoro forzato e situazione degli uiguri nella regione autonoma uigura dello Xinjang”, il parlamento europeo aveva offerto un’utile sintesi della situazione nella regione autonoma cinese dove «vivono più di 10 milioni di uiguri musulmani e di kazaki», e in cui la situazione delle minoranze è costantemente peggiorata da quando «nel 2014 è stata lanciata una campagna del governo cinese di dura lotta contro il terrorismo violento».
Nel contesto di tale campagna «gli uiguri e altre minoranze etniche, prevalentemente musulmane, della regione autonoma uigura dello Xinjiang, sono stati soggetti a detenzione arbitraria, tortura e gravi restrizioni culturali e della pratica del loro culto, nonché a un sistema digitale di sorveglianza così invasivo da controllare ogni aspetto della loro vita quotidiana mediante telecamere per il riconoscimento facciale, scansione dei telefoni cellulari, raccolta, aggregazione e trattamento illegali di dati personali su vasta scala e una presenza delle forze di polizia massiccia e intrusiva».
Quella presente nella risoluzione del 2020 del parlamento europeo è un’ottima descrizione dello stato nazionale di sorveglianza cinese, che costituisce la frontiera della nuova discriminazione high-tech che si va sviluppando su scala mondiale. Il modello cinese, fondato sulla massiccia installazione di telecamere di sorveglianza, i programmi speciali Sharp Eyes e Skynet, la creazione di database con campioni di Dna della popolazione, costituisce, sempre di più, un modello per i regimi autoritari che si stanno diffondendo in varie parti del globo. L’obiettivo è il controllo totale della popolazione. A questo si aggiunge la volontà di discriminazione nei confronti delle minoranze con il fine, come scrive ancora il parlamento europeo: «Dell’imposizione dello stile di vita della maggioranza cinese e dell’ideologia comunista».
A fare impressione sono i numeri del fenomeno e il fatto che a questi non corrisponda un’adeguata attenzione dell’opinione pubblica mondiale che, solo di recente, ha cominciato a mobilitarsi. Come già nel 2020 ricordava l’istituzione europea: «Più di un milione di persone, sono o sono state detenute nei cosiddetti “centri di rieducazione politica”, in quella che è la più grande detenzione di massa di una minoranza etnica finora mai attuata a livello mondiale».
Alla detenzione si sono unite campagne mirate alla riduzione del tasso di natalità degli uiguri. In questo contesto «le autorità cinesi sottopongono sistematicamente le donne uigure in età fertile ad aborti forzati, iniezioni intrauterine e sterilizzazioni».
Considerando il tenore e il contenuto di queste affermazioni, è sorprendente quanto la causa uigura resti ancora un tema d’interesse solo per un ristretto numero di specialisti o di attivisti per i diritti umani.
La risoluzione del 9 giugno
Lo scorso 9 giugno il parlamento europeo ha approvato una nuova risoluzione sulla “situazione dei diritti umani nello Xinjiang, inclusi gli archivi di polizia”. Questa risoluzione è successiva alla pubblicazione della documentazione contenuta negli archivi della polizia dello Xinjiang da parte di un consorzio internazionale di giornalisti tra cui la BBC, El Pais, Le Monde e Der Spiegel.
Questi archivi, come scrive il parlamento europeo nella risoluzione: «Documentano in dettaglio – e, per la prima volta, con dovizia di fotografie – la portata della repressione sistematica, brutale e arbitraria in atto nella regione autonoma uigura dello Xinjiang».
L’istituzione europea si spinge oltre indicando nella risoluzione dei precisi responsabili: «Il materiale in questione dimostra il ruolo informato, il sostegno attivo e il coinvolgimento diretto del governo centrale di Pechino, compresi Xi Jinping e Li Keqiang, e dei principali funzionari della regione autonoma uigura dello Xinjiang nel dirigere la politica di internamento di massa nello Xinjiang». Si sottolinea inoltre «che i documenti evidenziano il sostegno informato e attivo del presidente Xi Jinping alle campagne di “rieducazione”, di “dura lotta” e di “de-estremizzazione” dello Xinjiang, nonché le continue spese per ulteriori strutture di detenzione e per il personale necessario a gestire l’afflusso di detenuti».
Queste affermazioni si aggiungono a quanto già avvenuto negli ultimi mesi, in cui il tribunale uiguro di Londra ha concluso, come ricorda la risoluzione, che «le gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani perpetrate dalla Cina nei confronti degli uiguri e di altre popolazioni di etnia turca costituiscono forme di tortura, crimini contro l’umanità e genocidio». Allo stesso tempo «il governo statunitense e gli organi legislativi degli Stati Uniti, del Canada, del Regno Unito, dei Paesi Bassi, del Belgio, della Francia, della Lituania, della Cechia e dell’Irlanda hanno adottato decisioni analoghe».
Nel condannare le azioni del governo cinese, il parlamento europeo ha affermato che «le prove credibili delle misure di prevenzione delle nascite e della separazione dei bambini uiguri dalle loro famiglie costituiscono crimini contro l’umanità e rappresentano un grave rischio di genocidio».
La visita di Bachelet
Ha generato polemiche a fine maggio la visita in Cina di Michelle Bachelet, Alta commissaria delle Nazioni unite per i diritti umani. La visita di Bachelet è iniziata il 23 maggio e si è conclusa con una conferenza virtuale il 28 maggio. Le attese per una condanna esplicita delle politiche di Pechino da parte di Bachelet erano molto alte; tuttavia, l’Alta commissaria ha voluto precisare che la sua è stata una semplice visita e non «un’indagine ufficiale». Bachelet ha inoltre aggiunto che nel corso della sua visita ha «incoraggiato il governo a intraprendere una revisione di tutte le politiche di lotta al terrorismo e di deradicalizzazione per garantire che rispettino pienamente gli standard internazionali in materia di diritti umani e, in particolare, che non siano applicate in modo arbitrario e discriminatorio (…). Siamo consapevoli del numero di persone che cercano notizie sul destino dei loro cari. Questo e altri problemi sono stati sollevati con le autorità».
Gli Stati Uniti, tramite il segretario di Stato Antony Blinken, hanno criticato la Cina in quanto non avrebbe consentito «una valutazione completa e indipendente della situazione dei diritti umani nella Repubblica popolare cinese, compreso lo Xinjiang». E anche il parlamento europeo, nella risoluzione del 9 giugno 2022, si è espresso in maniera molto critica rispetto all’atteggiamento delle autorità di Pechino, senza lesinare critiche a Bachelet.
Nel testo della risoluzione è infatti possibile leggere che l’istituzione europea «deplora il fatto che, nell’ambito della sua visita in Cina e nella regione autonoma uigura dello Xinjiang, le autorità cinesi non abbiano consentito all’Alta commissaria delle Nazioni unite per i diritti umani un pieno accesso alle organizzazioni indipendenti della società civile, ai difensori dei diritti umani e ai centri di detenzione, il che le ha impedito di testimoniare in prima persona la piena portata dei campi di rieducazione politica dello Xinjiang». Successivamente l’istituzione Ue ha spostato le sue critiche su Bachelet sottolineando come sia da deplorare «il fatto che l’Alta commissaria delle Nazioni unite per i diritti umani, durante la sua visita, non sia riuscita a chiamare chiaramente il governo cinese a rendere conto delle violazioni dei diritti umani commesse nei confronti degli uiguri».
Intervenendo sul Washington Post, Rushan Abbas, fondatore e direttore esecutivo della Campaign for Uyghurs, e Dolkun Isa, presidente del World Uyghur Congress, hanno sottolineato come Bachelet abbia «fallito miseramente» la sua missione.
I rapporti Ue-Cina
Vista la complessità dei rapporti fra Unione europea e Cina, il parlamento europeo suggerisce di inasprire le sanzioni nei confronti dei funzionari cinesi di alto livello «quali Chen Quanguo, Zhao Kezhi, Guo Shengkun, Hu Lianhe e altri individuati negli archivi di polizia dello Xinjiang», e riconosce che le «relazioni Ue-Cina sono sempre più caratterizzate da concorrenza economica e rivalità sistemica». Quest’ultima risoluzione è particolarmente importante anche perché segna l’ultimo sviluppo di un percorso iniziato nel 2019 con la risoluzione sulla situazione degli uiguri in Cina relativa alla vicenda dei “China cables”.
Evidenzia, quindi, una presa di coscienza importante delle istituzioni di Bruxelles. Nei documenti noti come Xinjinang police files, che costituiscono il retroterra di quest’ultima risoluzione, sono descritte con dovizia di particolari le pratiche di discriminazione high-tech impiegate dal Partito comunista cinese. Ad esempio, alcuni individui sono stati condannati alla rieducazione per aver studiato le scritture islamiche o per aver scaricato sul proprio smartphone app di messaggistica crittografata. L’attivismo del regime di Pechino sembra però non conoscere sosta. Sul piano interno, sono stati pubblicati di recente dei nuovi regolamenti che contribuiranno a rafforzare la censura su internet e a impedire il flusso di dati fuori dalla Cina.
Campagne di repressione
Un recente rapporto dell’Australian strategic policy institute, dal titolo Cultivating friendly forces. The Chinese Communist Party’s influence operations in the Xinjiang diaspora, documenta la strategia del Partito comunista cinese relativa alla costituzione di gruppi che possano agire all’estero ed essere utilizzati per rappresentare la diaspora uigura in modo da non presentare posizioni critiche nei confronti del regime. Tali gruppi sono utilizzati anche per la raccolta di informazioni utili a perseguitare i membri della diaspora uigura che criticano il Partito comunista cinese. A questa strategia di Pechino è da aggiungere la collaborazione di numerosi stati arabi che, nel corso degli anni, non hanno esitato a fornire informazioni e a consegnare dissidenti a Pechino confidando nella benevolenza del regime.
Nel rapporto dal titolo Beyond Silence. Collaboration Between Arab States and China in the Transnational Repression of Uyghurs, pubblicato dall’Uyghur human rights project, si sottolinea come dal 2001 siano stati almeno 292 gli uiguri deportati in Cina da Paesi arabi. Ad esempio, nel luglio 2017 le forze di polizia egiziane hanno fatto irruzione in diversi edifici per effettuare dei controlli su oltre 200 uiguri, soprattutto studenti dell’università di Al-Azhar. Almeno 45 fra questi sono stati rimpatriati o deportati in Cina e da allora non si sono più avute loro notizie. Secondo il rapporto, agenti della polizia cinese erano presenti in Egitto al momento dei controlli e degli interrogatori. Tale elemento segnala l’esplicita volontà di Pechino di intervenire anche negli affari interni di altri stati.
Secondo quanto emerge dal rapporto, almeno sei stati arabi (Egitto, Marocco, Qatar, Arabia Saudita, Siria ed Emirati Arabi Uniti) avrebbero partecipato alla campagna transnazionale di repressione ai danni degli uiguri coordinata dalla Cina e che avrebbe raggiunto ben 28 paesi. Nel 2019 Muhammed bin Salman, durante un incontro a Pechino con Xi Jinping, aveva sottolineato il suo «rispetto e supporto nei confronti del diritto della Cina di porre in essere delle politiche anti-terrorismo e di de-radicalizzazione al fine si salvaguardare la sicurezza nazionale».
Come evidenziato nel rapporto, un supporto fondamentale all’azione del Partito comunista cinese è fornito dalle tecnologie di sorveglianza digitale transnazionale che consentono di monitorare i dati personali di dissidenti uiguri anche in paesi terzi al fine di consentire alla fitta rete di consolati e ambasciate di agevolare l’azione del meccanismo di repressione transnazionale.
Nel frattempo, in molti attendono la pubblicazione del rapporto di Bachelet che, secondo alcuni osservatori, il governo di Pechino sta facendo di tutto per bloccare. A tal riguardo sono state molto nette le parole di Agnés Callamard, segretaria generale di Amnesty International: «Finché continuerà a non denunciare i crimini contro l’umanità e le altre gravi violazioni dei diritti umani nello Xinjiang, non farà altro che ostacolare la giustizia e mettere in imbarazzo il sistema delle Nazioni unite».
Ogni giorno, alle evidenze ormai sotto gli occhi di tutti, si aggiungono ulteriori elementi relativi alla sfida che il Partito comunista cinese pone a tutti i paesi del mondo, non solo riguardo la tutela dei diritti civili o il futuro delle minoranze, ma anche riguardo alle nuove modalità con cui, nell’èra dello stato nazionale di sorveglianza, cittadini e istituzioni decidono di dare priorità ad alcuni valori rispetto ad altri. Dalla scelta di quei valori dipenderà anche la tutela dei diritti.
© Riproduzione riservata