Attacchi ai campi profughi, evacuazioni, aggressioni di coloni: «Arrivano anche con i bulldozer». Intanto a Gaza Hamas annuncia: «Se parte la fase 2 libereremo tutti gli ostaggi in un unico scambio»
«Tra novembre e dicembre sono apparsi tre nuovi outpost di coloni. Sinora ci hanno attaccato tre volte. Ci hanno anche bruciato una macchina». A raccontarlo a Domani è Salameh Kadneh, un insegnante di storia e geografia della nuova scuola elementare di Ras al Tin, a est di Ramallah, sede dell’Autorità nazionale palestinese, mentre nelle aule accanto fanno lezione imbacuccati in giacche a vento e berretti di lana gruppi di bambini in una gelida mattinata di febbraio.
La svolta possibile
La storia di Ras al Tin segue un copione che si ripete sempre più spesso in Cisgiordania, mentre le trattative tra Israele ed Hamas sul cessate il fuoco a Gaza potrebbero essere a una svolta. Il gruppo di miliziani avrebbe infatti offerto di liberare tutti gli ostaggi ancora nella Striscia. In un unico scambio. L’accelerazione è avvenuta dopo che il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha fatto sapere di essere pronto a passare alla seconda fase delle trattative sinora posticipata.
Giovedì Hamas dovrebbe restituire le spoglie di quattro israeliani, incluso Shiri Bibas e i suoi due figli piccoli, uno dei volti simbolo del dramma degli ostaggi. Domenica altri sei ostaggi dovrebbero essere rilasciati e le spoglie di altri quattro rimpatriate giovedì prossimo.
Con questo si concluderebbe la prima fase, lasciando però altri 58 ostaggi a Gaza, che Hamas avrebbe offerto di liberare in un colpo solo, ha detto l’alto funzionario di Hamas Taher al-Nunu all’agenzia France Press, come concessione per permettere alla seconda fase di partire.
La situazione in Cisgiordania invece sembra peggiorare di giorno in giorno. Da quando è iniziata la guerra a Gaza si sono moltiplicati gli episodi di violenza ad opera di gruppi di coloni israeliani e la confisca e demolizione di case e strutture pubbliche palestinesi in tutti i Territori occupati. La tattica delle frange più estremiste e violente dei coloni è sempre la stessa, secondo molte testimonianze palestinesi.
All’improvviso appare un caravan che si stabilisce in una zona limitrofa a quella di comunità palestinesi. Dopodiché ne arrivano altri costituendo i cosiddetti outpost, cioè colonie considerate illegali anche dal diritto israeliano.
Qualche volta vengono sgomberati dalle autorità del Paese ebraico. Ultimamente quasi mai. Poi iniziano gli episodi di intimidazione nei confronti dei palestinesi. Minacce, furti di bestiame, danni alle abitazioni, macchine incendiate, lanci di pietre.
Attacchi continui
Il caso di Ras al Tin è emblematico. Questa piccola comunità di circa 300 persone, per lo più di pastori, era stata fondata dalla fine degli anni sessanta in una zona non lontano da dove sorge la nuova scuola, costruita col contributo dell’ong italiana WeWorld e altri donatori internazionali, nell’area C della Cisgiordania, quella parte dei Territori interamente controllati dalle autorità israeliane.
I continui attacchi da parte dei coloni, incluso l’aggressione ad una donna picchiata con una mazza e che, a seguito delle violenze, ha trascorso 15 giorni in coma, e la decisione da parte delle autorità israeliane di demolire la vecchia scuola, anche quella costruita col supporto delle stesse ong della nuova, hanno spinto le famiglie ad andarsene nell’estate del 2023, racconta Kadneh. La scuola ora si trova in nell’area B dei Territori, quella a controllo misto tra Autorità nazionale palestinese e Israele, ed è stata costruita su terreno di proprietà delle famiglie di Ras al Tin.
Ciò fa sperare che almeno la scuola possa rimanere dov’è. «Impedire ai bambini di andare a scuola spinge per forza di cose le famiglie a trasferirsi da un’altra parte. Sembra una strategia» spiega Fadi Arouri, dell’ufficio di Ramallah di WeWorld. Gruppi di coloni hanno attaccato circa due settimane fa anche la comunità di Umm Al Kheir, vicino Hebron, accanto alla quale è stato costruito un settlement con cui condivide anche una strada che porta ad uno dei cancelli della comunità di israeliani.
«Sono venuti con dei bulldozer e ci hanno distrutto i pollai e gli ovili», racconta Khalil Al-Hathleen, un agricoltore della comunità. «Da quando si sono stabiliti a fianco a noi ci hanno rubato della terra proteggendola con quella recinzione», dice indicando il settlement a una decina di metri dalle case di Umm Al Kheir.
Al-Hathleen mostra anche una cisterna per l’acqua piovana di proprietà di agricoltori della zona dove è stata issata pochi giorni prima una bandiera israeliana, in una chiara tattica di accerchiamento che sembra essere mirata a ridurre sempre più lo spazio dei palestinesi, per spingerli o ad andarsene o a rimanere rinchiusi in piccole aree che stanno diventando sempre più affollate. La “gazificazione della Cisgiordania”, come vari osservatori hanno iniziato a far notare.
Tra il 4 e il 10 febbraio ci sono stati 15 attacchi da parte di settler, col ferimento di tre palestinesi, incluso un bambino e danni a proprietà, incluso a 250 ulivi, secondo l’ultimo aggiornamento fornito dall’agenzia dell’Onu per il coordinamento degli affari umanitari Ocha.
Un mare di checkpoint
Nel frattempo, una pesante offensiva dell’esercito israeliano (Idf) del nord della Cisgiordania ha provocato evacuazione forzata di migliaia di persone nelle ultime settimane, in una spirale di violenza raramente sperimentata da queste zone da quando è iniziata l’occupazione israeliana nel 1967. L’operazione, finalizzata secondo l’Idf allo smantellamento di cellule terroristiche in Cisgiordania, ha colpito campi profughi e città, incluso Jenin, Tulkarm, Nur Shams e Tubas.
La contestuale proibizione all’Unrwa, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi, di operare in Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza, impedisce anche di coordinare le proprie attività con le autorità israeliane ha complicato enormemente la situazione, come ha spiegato Jonathan Fowler, portavoce dell’Unrwa.
Da quando è iniziata questa offensiva in Cisgiordania le autorità israeliane hanno anche installato una marea di checkpoint lungo le strade di tutta l’area, rendendo la circolazione completamente imprevedibile, con code infinite e chiusure di intere aree.
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