Il principe ereditario è l’uomo del momento. L’autoritarismo interno gli ha permesso di dare una sua svolta netta nel paese. Ma disintossicarsi economicamente dal greggio è molto difficile, il soft power serve a guadagnare tempo e a contare il più possibile nei tavoli internazionali
«Temo che il giorno in cui morirò, morirò senza aver realizzato ciò che ho in mente». Questa frase è stata pronunciata nel 2017 dal principe ereditario Mohammed bin Salman (Mbs) al giornalista del New York Times Thomas L. Friedman. Parole emblematiche per raccontare la figura di uno dei leader politici più influenti della storia contemporanea. Chi lo conosce lo descrive come un uomo egocentrico, astuto, poco disponibile a essere messo in discussione. Per tutti gli altri, invece, il suo nome sarà indissolubilmente legato a quello di Jamal Khashoggi, il giornalista del Washington Post fatto a pezzi nel consolato saudita di Istanbul il 2 ottobre del 2018. Khashoggi era una delle voci più critiche della monarchia del regno, una spina nel fianco per il principe ereditario, che secondo i servizi di sicurezza degli Stati Uniti e le Nazioni unite è il mandante di quel brutale omicidio.
Ma la storia di Khashoggi non è un unicum. Da quando è al potere, bin Salman junior ha fatto terra bruciata intorno a sé. Nel paese non c’è spazio per il dissenso o il rispetto per i diritti umani. Discutere di libertà di informazione è impensabile.
Bin Salman ha fatto incarcerare i suoi “nemici”, congelato i loro conti e nei migliori dei casi li ha costretti all’autoesilio all’estero. Si è circondato di fedeli collaboratori e consiglieri per arrivare fin dove nessun monarca saudita si era spinto: far uscire il paese dal Novecento. Ma a quale costo?
L’ascesa al potere
La sua ascesa al potere inizia nel 2015 quando il padre diventa re dopo aver governato per cinquant’anni la capitale Riad. Mbs viene nominato nel gennaio di quell’anno come ministro della Giustizia. A fine mese diventa presidente del consiglio per gli Affari economici e di sviluppo dell’Arabia Saudita, un organo ad hoc creato solo per lui (i grandi poteri della monarchia). In un anno il giovane Mbs, all’epoca poco più che trentenne e già a capo di un paese seduto su una montagna di soldi, verrà ricordato per due cose: la guerra in Yemen (dove è in corso una crisi umanitaria senza precedenti) e Saudi vision 2030, il piano di transizione culturale ed economica per uscire dalla dipendenza del greggio. Un anno fa è stato nominato come primo ministro ottenendo formalmente poteri esecutivi che comunque già esercitava con le cariche accumulate.
Il diversivo
Il principe ereditario è ben consapevole che l’oro nero di cui il paese è gonfio non durerà per sempre. La crisi climatica e la transizione green dell’occidente inevitabilmente dovranno portare prima o poi il regno a crearsi una nuova fonte di ricchezza. A Riad lo sanno tutti. Ma finché i pozzi petroliferi sono pieni e finché la transizione ecologica non sarà definitiva, il paese continua a vendere milioni di barili di greggio ogni anno. E lo fa non solo per via di una necessità energetica per gli stati europei ma anche perché i capitali sauditi sono entrati in settori di mercato strategici in alcuni paesi occidentali rendendo di fatto soggiogati ai soldi e al petrolio saudita.
Uno degli obiettivi, quindi, è fare di tutto per ritardare la transizione economica del paese. E per farlo, bin Salman ha espanso la sfera di influenza del suo paese a furia di miliardi. «Non ci sarà alcun investimento o movimento o crescita in nessuna regione del mondo senza la voce del fondo sovrano saudita» disse una volta il giovane principe ereditario. E al momento è così. Il mezzo utilizzato da Riad per penetrare in occidente e non solo è il Pif, il fondo sovrano saudita (e uno di quelli con più risorse economiche al mondo) presieduto proprio da Mbs, che negli ultimi anni ha investito nel settore dell’intrattenimento, del turismo, delle telecomunicazioni e in altre società strategiche di diversi stati di peso come Egitto, Francia e gli stessi Stati Uniti.
Il Pif ha comprato quote in società come Uber, Walt Disney, Boeing, Facebook, Marriot, Pfizer, Starbucks, Mclaren, Pagani. A livello di intrattenimento sportivo il fondo sovrano ha la maggioranza del Newcastle, lo storico club di Premier League. In Arabia Saudita, invece, ha acquistato al Ittihad, Al Nasr, Al Hilal, Al Ahli. Squadre che annoverano nelle loro rose i nomi dei più grandi calciatori internazionali. L’International Cricket Council ha siglato un’importante partnership con Aramco (l’azienda petrolifera di stato), di recente anche il golf professionistico mondiale è finito nelle mani del Pif.
Insomma, i soldi sono tanti e garantiscono enormi opportunità anche per kermesse ed eventi internazionali, in ultima istanza l’Expo 2030 (ottenuto con una vittoria schiacciante di Riad che ha promesso investimenti in cambio di voti) e il mondiale di calcio del 2034. Prima di arrivare a questi risultati l’Arabia Saudita ha ospitato i mondiali per club, la supercoppa italiana e altre competizioni rilevanti nel mondo del calcio. Senza contare il debutto del circuito di formula 1 nel 2021.
Transizione difficile
Sul piano del soft power l’Arabia Saudita è imbattibile ed è riuscita a penetrare ovunque nel mondo, e a portare nel paese del Golfo politici, economisti, intellettuali di grande spessore. Lo ha fatto attraverso l’organizzazione di conferenze internazionali, la maggior parte gestite dalla fondazione Future investment initiative.
Tuttavia questo non ha al momento portato un grande ritorno economico al paese, bensì un guadagno di natura politica e di influenza. È impossibile discutere di ciò che accade in Medio Oriente senza avere al tavolo il principe ereditario.
Nonostante l'impegno nel diversificare la propria economia, il budget dell’Arabia Saudita nel 2021 dipendeva ancora per il 75 per cento dalle esportazioni di petrolio.
Secondo un’analisi pubblicata su Foreign Policy il piano Saudi Vision 2030 è in estremo ritardo soprattutto nella crescita del settore privato e nell’incrementare i guadagni non derivati dal petrolio.
Infatti, dopo un incremento del Pil a +8.7 per cento nel 2022 (dovuto anche grazie all’aumento del prezzo del greggio influenzato dalla guerra in Ucraina e dalla pandemia da Covid-19) per il 2023 il Fondo monetario internazionale prevede una crescita di solo 0.8 per cento. Nel terzo semestre di quest’anno il Pil si è contratto del 4.5 per cento a causa delle diminuzioni delle entrate del petrolio.
Dati che sono preoccupanti se si tiene in considerazione anche che da quando Mbs è salito al potere, il debito lordo pubblico è aumentato drasticamente. «Penso che entro il 2020, se il petrolio si fermerà, saremo in grado di vivere», aveva detto anni fa il principe Mohammed all’emittente saudita Al Arabya. Mente sapendo di mentire.
Tuttavia, non è tutto da buttare. Il Saudi Vision 2030 ha già raggiunto parte dei suoi obiettivi soprattutto per quanto riguarda l’aumento della percentuale di donne a lavoro (siamo al 37 per cento secondo i dati del governo su un obiettivo del 30 per cento) e la diminuzione della disoccupazione da oltre l’11 per cento al 7 per cento (intorno al 5.6 per cento secondo l’Fmi)
Sul lato religioso, Mbs ha provato in tutti i modi a mitigare gli effetti del wahhabismo, un’interpretazione del corano più conservatrice che ha limitato i diritti delle donne e ha influenzato anche gli stati limitrofi. «Oggi la nostra costituzione è basata sul Corano e sul petrolio. E questo è molto pericoloso. Nel regno ognuno ha una grande dipendenza dal greggio», ha detto una volta bin Salman all’emittente saudita Al Arabya.
Politica estera
Sul piano della politica internazionale il giovane bin Salman ha condotto una politica di gran lunga distensiva con i suoi vicini.
Primo fra tutti con Israele, che ha portato all’ira di Hamas, e in secondo l’Iran con cui dopo decenni di antagonismo è iniziata una forma di dialogo suggellata dalla storica visita di Ebrahim Raisi a Riad dello scorso 11 novembre.
Durante la presidenza di Donald Trump, bin Salman ha trovato una spalla disposto ad aiutarlo sul panorama internazionale. Ma ci è voluto tempo per ripulire la sua immagine dal sangue di Khashoggi.
Ci è riuscito, ancora una volta, grazie ai soldi del petrolio. Nel giugno del 2022 con Erdogan sono arrivati alla riappacificazione grazie ad accordi commerciali dal valore di 50 miliardi di dollari. Bin Salman è stato capace di sfruttare l’ultimo decennio il vuoto lasciato dagli altri stati arabi, troppo impegnati a risolvere le loro beghe interne nel periodo post rivoluzionario delle primavere arabe.
Due incognite potrebbero minare il destino roseo di Mohammed bin Salman. I nuovi equilibri politici in Medio Oriente dopo la guerra tra Hamas e Israele, la riuscita o il fallimento del Saudi Vision 2030. Ci sono ancora sette anni di programmazione davanti.
Una volta conclusi, quale sarà la sua prossima Vision?
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