Un secondo mandato dell’ex presidente repubblicano aumenterebbe le tensioni economiche tra i due paesi. L’isolazionismo trumpiano può accelerare il declino americano. Ma si profila una squadra di falchi anti-Cina
Trump che stringe la mano a Putin, Trump e Stormy Daniels, Trump contestato alla convention dei libertari, Trump che balla sulle note di YMCA… WeChat, TikTok e le altre app di condivisione di video sono inondate da quelli di Donald Trump. Il cinese medio mette “mi piace”, perché The Donald lo intriga, lontano com’è, anni luce, dai formali e compassati leader del partito comunista. E, tutto sommato, anche questi ultimi potrebbero preferirlo alla Casa Bianca per i prossimi quattro anni al posto di Joe Biden.
Questo malgrado l’ultimo incontro tra il presidente uscente e il suo omologo Xi Jinping (il 15 novembre scorso) abbia prodotto un guardrail politico, militare ed economico, mentre se il 5 novembre vincerà il miliardario repubblicano, quella barriera, piantata per evitare che Stati Uniti e Cina vadano allo scontro, rischia di saltare.
Con Trump nella stanza dei bottoni il conflitto con la Cina con ogni probabilità scoppierebbe anzitutto sul commercio. Infatti tra i suoi slogan elettorali più gettonati c’è l’innalzamento al 60 per cento dei dazi su tutte le merci importate dalla Cina, che triplicherebbe l’effetto della guerra commerciale scatenata nel 2018, durante il primo mandato di “Tariff Man”.
Le imposte sul made in China godono di consenso bipartisan, e del sostegno dei colletti blu. Uno studio appena pubblicato dal Peterson Institute for International Economics avverte però che a una famiglia a reddito medio costerebbero 1.700 dollari all’anno – ripercuotendosi soprattutto sugli importatori e dunque sui prezzi dei beni di consumo –, al netto delle contromisure che arriverebbero dalla Cina, come dall’Ue (Trump vuole dazi di almeno il 10 per cento su tutti i beni che entrano negli Usa).
«Biden debole»
L’altra grande questione – esplosiva almeno quanto la guerra commerciale – è Taiwan, su cui mentre l’amministrazione Biden resta formalmente impegnata al rispetto di “Una sola Cina” (riconoscendo che la Repubblica popolare cinese è l’unico governo della Cina e Taiwan non è un’entità sovrana separata), Trump potrebbe invertire la rotta.
Il leader repubblicano, che nel 2016 si congratulò al telefono con Tsai Ing-wen in occasione della sua prima elezione facendo infuriare Pechino, a dispetto del suo isolazionismo sarebbe pronto a schierarsi apertamente dalla parte di Taiwan, mettendo in soffitta la “ambiguità strategica” praticata da Washington dal 1979. Almeno secondo il suo ex ambasciatore all’Osce, James Gilmore, che nei giorni scorsi si è recato a Taipei, dove si è detto sicuro che «Trump sosterrà Taiwan quando diventerà presidente».
Ma chi elaborerà la strategia Usa sulla Cina se le truppe trumpiane torneranno a guidare gli States? Il bellicoso articolo a quattro mani pubblicato ad aprile su Foreign Affairs da Mike Gallagher e Mattew Pottinger indica la volontà da parte dell’ex funzionario dei servizi militari che ha guidato il Comitato ristretto della Camera dei rappresentanti sulla concorrenza strategica tra gli Stati Uniti e il Partito comunista cinese e dell’ex responsabile per l’Asia nel Consiglio per la sicurezza nazionale di Trump di continuare a influenzare la politica.
I due hanno criticato il tentativo di Biden di “gestire” le relazioni bilaterali, sostenendo apertamente la necessità di un confronto da Guerra Fredda, tra l’altro attraverso un massiccio aumento delle spese militari (dal 3 al 4-5 per cento del Pil) per contrastare l’invasione di Taiwan, che Gallagher e Pottinger danno per scontata. Quest’ultimo però ha testimoniato contro Trump sull’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021, ed è dunque assai improbabile che possa entrare nella stanza dei bottoni.
Squadra anti-Cina
Secondo il ben informato Axios, anche sulla Cina Trump sceglierebbe i suoi uomini sulla base di un criterio fondamentale: la fedeltà nei confronti del capo. Eppure i nomi dei papabili rivelati dallo stesso sito internet hanno anche un altro comune denominatore: la nostalgia della Guerra Fredda.
Tra loro c’è Steve Yates, attualmente ricercatore presso lo America First Policy Institute, ex analista della National Security Agency ed ex vice consigliere per la sicurezza nazionale. Yates è un grande sostenitore di Taiwan e in una recente intervista alla Fox ha dichiarato che «accordarsi con la Cina è come accordarsi col diavolo».
Tra chi si candida a dare una mano a Trump sulla Cina figura anche Elbridge Colby, direttore di The Marathon Initiative, un think tank (del quale fanno parte anche Pottinger ed Edward Luttwak) che si occupa di «sviluppare le strategie diplomatiche, militari ed economiche di cui la nazione avrà bisogno per affrontare una competizione di lunga durata con grandi potenze rivali». Poi c’è Kiron Skinner, già direttrice dell’ufficio politico del dipartimento di stato guidato da Mike Pompeo (2018-2019).
Anche Skinner, spesso ospite di Fox News, vede la Cina come una minaccia, ma nello stesso tempo ritiene che «siamo davvero in un cattivo momento per l’America per tenere lezioni a chiunque, al momento non abbiamo la credibilità per dare lezioni al resto del mondo sulla democrazia, sulla promozione della democrazia».
Insomma se sul commercio Trump potrebbe essere con Pechino molto più aggressivo di Biden, sul contenimento della Cina mediante il rafforzamento delle alleanze politiche e militari degli Usa potrebbe essere molto meno efficace del suo predecessore. L’isolazionismo di Trump – ragionano a Pechino – comunque accelererebbe il declino degli Stati Uniti.
Diplomazia dei panda
In attesa del 47esimo presidente Usa, la Cina ha rimesso in moto la diplomazia dei panda inaugurata nel 1972 dopo lo storico incontro tra Mao Zedong e Richard Nixon: entro la fine dell’anno allo Smithsonian’s National Zoo di Washington arriveranno due orsi che riempiranno il vuoto lasciato da Tian Tian, Mei Xiang e dal loro cucciolo Xiao Qi Ji, richiamati in patria mesi fa, quando la tensione con Biden era alle stelle.
Il discorso ufficiale è improntato alla cautela. «Chiunque venga eletto, i popoli cinese e americano avranno comunque bisogno di scambi e cooperazione, e questi due grandi paesi dovranno trovare il modo per andare d’accordo tra loro», ha dichiarato il ministro degli esteri, Wang Yi. A ogni buon conto a Pechino si stanno già preparando a “giorni di pioggia”.
Secondo Yang Jiemian, il governo cinese deve «calcolare e prepararsi per tutto ciò che Trump potrebbe fare di diverso rispetto al suo primo mandato, dobbiamo essere sempre preparati per i giorni piovosi». Durante un seminario a Hong Kong il presidente del board dello Shanghai Institutes for International Studies ha sostenuto che «la repressione statunitense si svolge sempre gradualmente, ma anche noi abbiamo risposto passo dopo passo. Rispetto a sei anni fa, la Cina è più fiduciosa e meglio preparata».
Anche secondo Jia Qingguo – tra i più quotati studiosi cinesi di relazioni internazionali – le linee di comunicazione riaperte sei mesi fa tra le due amministrazioni sarebbero terremotate da un ritorno di Trump. L’ex preside della Scuola di studi internazionali dell’Università di Pechino (Beida) ha ricordato l’ultima fase dell’amministrazione Trump, quattro anni fa, durante la quale i suoi funzionari manifestarono idee politiche più radicali nei confronti della Cina. In particolare, Jia ha citato il discorso di Mike Pompeo, alla Biblioteca Richard Nixon in California nel 2020, in cui l’allora segretario di stato ha invitato “il mondo libero” a indurre un cambiamento nella “Cina comunista”.
Per Yan Xuetong, a capo dell’Istituto di relazioni internazionali dell’università Tsinghua di Pechino, la Cina non vuole una nuova Guerra Fredda, ma con Trump la rivalità geopolitica tra la potenza egemone e quella in ascesa si intensificherebbe. Secondo Yan l’accordo Biden-Xi «non riduce la competizione o i conflitti tra Cina e Stati Uniti in altri campi, soprattutto in quello tecnologico, e se Trump vincerà le prossime elezioni, penso che Cina e Stati Uniti avranno più conflitti in campo economico».
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