Dopo il recente incontro tra Vladimir Putin e le aziende italiane c’è chi torna a dire che una delle “costanti” della nostra politica estera sarebbe la naturale ricerca di una partnership con Mosca. Ma i fatti raccontano altro
- Mercoledì alcune aziende italiane come Pirelli, Generali, Enel, Unicredit e Intesa Sanpaolo hanno incontrato in videconferenza il presidente russo Putin.
- L’incontro ha rilanciato la vulgata secondo cui una delle “costanti” della nostra politica estera sarebbe la naturale ricerca di una partnership con Mosca.
- In realtà la storia ci dice che nei momenti di stabilità internazionale i rapporti tra Roma e Mosca assumono contorni tendenzialmente cooperativi. Ma quando l’ordine globale entra in crisi, tendono a incrinarsi.
Metti intorno a un tavolo (virtuale) otto ministri russi, il presidente di Rosneft, Vladimir Putin e i vertici di alcuni player economici italiani come Pirelli, Generali, Enel, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Fosse stato Halloween, il meeting organizzato dalla Camera di commercio italo-russa avrebbe potuto essere sintetizzato con il celebre “dolcetto o scherzetto”?
L’intento legittimo delle aziende era quello di difendere o espandere i loro business in Russia. La composizione prevalentemente istituzionale della controparte, tuttavia, fa pensare che questa abbia fiutato anche le forti implicazioni politiche dell’incontro.
Da un lato il suo impatto negativo sull’immagine atlantista dell’Italia, all’indomani della videoconferenza in cui Mario Draghi aveva discusso con gli alleati l’ipotesi di nuove sanzioni per la crisi ucraina. Dall’altro la possibilità di innescare un cortocircuito tra le nostre istituzioni più impegnate sui dossier strategici – presidenza del Consiglio, ministero degli Affari esteri e Copasir – per rallentarne l’azione.
Senza chiamare in ballo teorie che vogliono la politica internazionale come un gioco a somma zero e sussurrano all’uomo di stato di non credere ad amicizie e inimicizie permanenti, sembra comunque necessaria una riflessione sulla vulgata che avvolge le relazioni italo-russe. Secondo cui una delle “costanti” della nostra politica estera sarebbe la naturale ricerca di una partnership con Mosca. È davvero così? L’evidenza aneddotica sconfessa questa generalizzazione.
In pace e in guerra
Tralasciando il Risorgimento, che trovò proprio in San Pietroburgo uno dei suoi più pervicaci antagonisti, o il periodo post unitario, quando l’Impero russo si rivelò sprezzante oppositore dell’ingresso del Regno d’Italia nel “Concerto europeo”, è possibile giungere a conclusioni diverse esaminando la storia del XX e XXI secolo.
Questa ci conferma che nei momenti di stabilità internazionale i rapporti tra Roma e Mosca assumono contorni tendenzialmente cooperativi. Ma quando l’ordine globale entra in crisi, ci dice che essi tendono a incrinarsi.
Di fronte a tale congiuntura, una media potenza come l’Italia non può che allinearsi con un alleato “maggiore”. E se questo si trova sul fronte avverso alla Russia – come accaduto nell’ultimo secolo – anche i nostri rapporti con quest’ultima diventano competitivi.
È quanto accaduto negli anni Venti e nei primi anni Trenta quando, a dispetto delle differenze di regime, le relazioni tra Roma e Mosca conobbero un continuo crescendo. Dal riconoscimento ufficiale dell’Urss da parte dell’Italia fascista (1924), passando per il viaggio a Odessa di Italo Balbo (1929) e i primi accordi con la Fiat (1931), fino al Patto italo-sovietico (1933).
Con il progressivo abbraccio fatale tra Italia e Germania nazista, le relazioni con l’Urss subirono una rapida involuzione. L’adesione dell’Italia al Patto anti Comintern e l’affondamento di alcune imbarcazioni sovietiche nel Mediterraneo da parte dei nostri sottomarini (1937) furono seguite dall’espulsione degli italiani dal Caucaso sovietico, dalla chiusura di tutti i consolati nell’Urss e dal progressivo azzeramento dei rapporti commerciali. La partecipazione italiana all’Operazione Barbarossa (1941) fu, quindi, solo il picco di un climax competitivo.
La prima fase della Guerra fredda
Nella prima fase della Guerra fredda l’Italia si ritagliò una certa autonomia nelle relazioni con l’Urss. Alla chiusura della questione dei prigionieri di guerra (1959), seguirono le partnership siglate da Eni e Finsider (1960), l’accordo della Fiat per costruire stabilimenti automobilistici a Togliattigrad (1965) e il contratto di Eni per la fornitura di gas naturale sovietico (1969).
Con la fine della distensione, i rapporti tra Roma e Mosca conobbero un’involuzione. Anticipata dal progetto dell’eurocomunismo del Pci (1975), questa subì un’accelerazione con l’allineamento italiano alla politica dell’amministrazione Carter sugli euromissili (1979), il boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca (1980) e la denuncia della presenza di un sottomarino sovietico nel Golfo di Taranto (1982). Il culmine della tensione fu raggiunto con l’installazione dei missili Pershing e Cruise nell’aeroporto militare di Comiso (1983).
Dopo il fatidico triennio 1989-1991, Roma fu tra i principali sponsor dell’integrazione di Mosca nel nuovo ordine internazionale. I buoni uffici tra i due paesi si tradussero nel Trattato di amicizia e cooperazione (1994), risultando consacrate dall’impegno di Silvio Berlusconi per l’istituzione del Consiglio Nato-Russia (2002) e in quello di Romano Prodi per la progettazione di un gasdotto – il South Stream – che avrebbe dovuto collegare Italia e Russia (2006).
Sempre Prodi lavorò per mitigare la volontà americana di promettere esplicitamente a Ucraina e Georgia la membership Nato al vertice di Bucarest (2008), mentre Enrico Letta fu il solo leader europeo a partecipare all’inaugurazione dei giochi olimpici di Sochi nonostante la crisi in Ucraina (2014).
Chiudere i rubinetti
Gli effetti del fallimento della politica obamiana di reset e della postura revisionista assunta dalla Russia, tuttavia, non tardarono ad arrivare. Roma sostenne le sanzioni per l’annessione illegale della Crimea, a cui Mosca rispose con contro sanzioni e la – non casuale – sospensione del progetto South Stream (2014).
Il Cremlino, inoltre, ha sostenuto in Libia le forze del generale Khalifa Haftar contro il governo di Tripoli appoggiato da Roma, che nel frattempo ha dislocato 140 soldati in Lettonia nell’ambito dell’Enhanced Forward Presence della Nato (2016). Più di recente le relazioni tra i due paesi non sono migliorate.
Dai sospetti di data mining suscitati dall’operazione From Russia with love per l’emergenza Covid-19 (2020), passando per l’arresto di un militare italiano accusato di passare documenti segreti a ufficiali russi (2021), siamo arrivati alla scelta di Roma di aumentare la spesa militare per nuovi sistemi d’arma che sembrano funzionali al contenimento della presenza russa in Siria, Libia e Mali.
Nella crisi Ucraina, il governo italiano si è limitato a ribadire fedeltà alla Nato attraverso le dichiarazioni del ministro della Difesa Lorenzo Guerini, mentre il ministro degli Esteri Luigi Di Maio sostiene il formato Normandia per favorire «una de-escalation delle tensioni».
Ma c’è una questione di fondo che frena un maggiore coinvolgimento dell’Italia: la questione energetica. Dopo la Germania, il nostro paese importa il 43,3 per cento (dati del ministero della Transizione ecologica) del gas naturale dalla Russia.
Se, come ha allertato, il leader della Lega Matteo Salvini, Putin chiudesse «i rubinetti del gas», l’Italia avrebbe serie difficoltà perché la sua produzione interna è inferiore al 10 per cento. E così, mentre la ministra degli Esteri tedesca Annalena Barbock ribadisce che nel caso di un’invasione russa il gasdotto Nord Stream 2 non sarebbe attivato, l’Ue ha trovato «inopportuno» l’incontro di Putin con gli imprenditori italiani perché «la Russia cerca di minare le fondamenta della sicurezza in Europa».
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