Lo scontro finale con il fronte di liberazione del Tigray non era inevitabile. Ma negli ultimi mesi la situazione è precipitata e il conflitto potrebbe essere lungo
- Lo scontro con il fronte di liberazione del Tigray ha radice antiche, ma il comportamento del premier etiopico Abiy Ahmed, molto apprezzato in occidente, non ha agevolato il dialogo.
- Dopo il presunto (e fallito) golpe del giugno del 2019, era emersa la realtà di una resa dei conti all’interno del gruppo dirigente che si andava consolidando espellendo membri non allineati alla scelta dello scontro finale con il Tplf.
- La situazione è precipitata dopo il rinvio delle elezioni nell'estate del 2020, a causa del Covid-19. Le condizioni per un conflitto prolungato o addirittura per una guerra civile ci sono tutte.
Fin dalla sua elezione il premier etiopico Abiy Ahmed ha impresso al suo paese un ritmo riformista poco consueto per un paese millenario come l’Etiopia. Ora tale dinamicità rischia di far deragliare il paese facendolo cadere nel gorgo della guerra. Lo scontro in atto con il fronte di liberazione del Tigray (Tplf) ha radici antiche e andrebbe affrontato con maggiore buonsenso e saggezza. Già al momento della caduta del colonnello Menghistu a Addis Abeba e della simultanea indipendenza dell’Eritrea, si erano intravisti i primi segnali dell’odio ideologico che divideva il Fronte tigrino (Tplf) da quello eritreo (Eplf).
Il secondo accusava nemmeno troppo velatamente il primo di non riconoscerne la leadership a causa della maggior anzianità di fondazione e per l’aiuto fornito durante la guerra. In altre parole Isaias Afeworki e gli eritrei rimproveravano a Meles Zenawi e ai suoi di non essere abbastanza riconoscenti.
Incomprensioni e ostilità
Forse tra i due ci furono equivoci su temi sensibili, come ad esempio lo sbocco al mare per Addis o altri vantaggi reciproci. In ogni caso entrambi si erano poco a poco irrigiditi. In particolare l’Eritrea si era progressivamente rinchiusa in un’ombrosa ostilità, decidendo di non dar seguito a nessuna richiesta etiopica sul porto di Aden, isolando de facto l’Etiopia dal mare. Inoltre Asmara decise di battere una propria moneta, il nakfa, al posto della moneta in comune (il birr).
Nel contempo i tigrini del TPLF avevano rafforzato la loro presa sul potere a Addis, malgrado la creazione di una teorica federazione di stati uguali. Il risultato fu la polarizzazione e le relazioni guastarono al punto di scatenare la guerra del 1998-2000, combattuta attorno a Badme, cioè al confine con il Tigray.
Quest’ultimo elemento deve essere tenuto presente: è l’inimicizia tra tigrini ed eritrei – più ideologica che etnica – a far da detonatore da ormai troppi anni a ogni sussulto dell’area, fino alla frattura interna attuale.
La svolta mancata
L’elezione nel 2018 di un oromo come Abiy Ahmed a leader del paese aveva lasciato sperare che le divisioni etniche fossero ormai alle spalle: finalmente un membro del gruppo maggioritario era al comando e faceva subito la pace con Asmara, due buone notizie che potevano prefigurare una svolta. Ma il fuoco covava sotto la cenere.
Il premier aveva cercato subito di reintegrare i ribelli oromo per spegnere i disordini della più grande e popolosa regione del paese; anche per questo ha scelto di chiudere il contrasto con Asmara. Ma la parte tigrina non era d’accordo e aveva iniziato a fremere: perdere il potere tenuto per 27 anni non è poca cosa.
Invece di avanzare con prudenza, convincere e pazientare, Abiy aveva accelerato provocando l’aumento delle tensioni. Gli urti tra clan politico-regionali e componenti della federazione erano sempre più forti, in un contesto di assoluta opacità di ciò che stava avvenendo al vertice.
Di conseguenza nel corpo del paese la tensione era aumentata con il moltiplicarsi degli incidenti etnici.
Se Abiy è stato imprudente, d’altro canto c’è certamente stato chi ha pescato nel torbido e fatto salire la tensione interna.
Verso lo scontro finale
Le scarse notizie dall’interno del sistema etiopico diventavano sempre più difficili da decifrare. Dopo il presunto (e fallito) golpe apparentemente di marca amhara del giugno del 2019, era emersa la realtà di una resa dei conti all’interno del gruppo dirigente che si andava consolidando espellendo membri non allineati alla scelta dello scontro finale con il Tplf come si è capito in seguito. Gradualmente emergeva un altro volto del premier molto celebrato all’estero: molto più severo, caparbio e solitario nella gestione del potere, fino al punto di alienarsi la simpatia di buona parte dei suoi iniziali sostenitori oromo.
Il suo messaggio di unità e apertura che ha sedotto il mondo (e il comitato Nobel), stava svelando un intento dirigista e alieno da ogni dialogo politico.
La decisione di rimandare a causa del Covid-19 le elezioni previste nell’agosto del 2020, ha rappresentato l’innesco politico-giuridico del passaggio alla fase armata. A quanto pare tale eventualità era già stata presa in considerazione da entrambi gli antagonisti sin dall’inizio dell’ultima fase della disputa.
Tuttavia prima di giungere all’inizio ufficiale delle ostilità con le dichiarazioni del 4 novembre del leader etiopico, c’erano stati vari passaggi che avrebbero potuto favorire l’avvio di un dialogo politico allo scopo di evitare le armi. Dopo la decisione di rinviare il voto si era innanzitutto aperto un contenzioso giuridico sulla possibilità che l’attuale governo Abiy potesse essere prolungato.
La proroga contestata
La costituzione etiopica non è chiara su tale punto. Su tale dilemma il parlamento aveva chiesto un parere alla Camera della federazione, il secondo ramo del parlamento federale etiopico e l’unica ad aver il potere di interpretare la costituzione.
Il quesito verteva attorno la legittimità dell’estensione del mandato dell’amministrazione corrente, come sosteneva il premier.
Altri, tra cui lo stesso Tplf, ritenevano che invece andava creato un governo ponte transitorio. La Camera della federazione aveva deliberato la proroga del mandato del governo attuale fino all’indizione di nuove elezioni. Non tutti si erano detti in accordo né con la decisione di richiedere tale parere, né con il verdetto medesimo, tra cui vari partiti di opposizione oltre che il fronte del Tigray. Quest’ultimo aveva allora preteso un dialogo nazionale per dirimere la vicenda. È precisamente a questo punto che le cose si sono arenate.
Tutto precipita
Secondo il Tplf il dialogo avrebbe dovuto coinvolgere tutti i partiti dell’opposizione e gli altri soggetti istituzionali, non solo governo centrale e governo regionale. Abiy ha respinto tale ipotesi e nessun tentativo interno o internazionale è stato in grado di far spostare i due protagonisti dalle loro posizioni di partenza. Vari tentativi di mediazione sono stati fatti dal consiglio nazionale delle chiese e dal patriarcato della chiesa etiopica, ma soprattutto dall’Unione africana e dagli elders continentali.
Abiy è rimasto irremovibile descrivendo la crisi come una “questione interna di ordine pubblico”; dal canto suo il Tplf ha rifiutato un colloquio soltanto a due. Da quel punto in avanti la situazione è rapidamente precipitata.
Una doppia ragione
In reazione allo stallo, il Tplf ha indetto e svolto le elezioni regionali dichiarando di non riconoscere più come legittimo l’esecutivo federale.
Per tutta risposta il parlamento ha interrotto i trasferimenti dei fondi verso lo stato regionale, dichiarando che avrebbe cooperato soltanto con i comuni.
La contromossa tigrina è stata di sospendere la raccolta delle imposte federali. In questo gioco al rialzo senza sosta si è rapidamente giunti al punto di non ritorno: l’attacco del Tplf alla base militare del comando federale settentrionale e la replica etiopica con l’offensiva annunciata il 4 novembre.
Seppure la Camera federale ha tutto il diritto di statuire sull’interpretazione della costituzione, il nocciolo del problema è che la costituzione federale stessa rimane vaga sia sulle condizioni del rinvio delle elezioni che sulla questione dell’interim del potere esecutivo.
Inoltre la carta federale non regolamenta gli stati regionali in termini di elezioni locali. Dal punto di vista strettamente giuridico entrambe le parti hanno argomenti validi: il problema è che non ne hanno mai discusso a quattrocchi né davanti a testimoni.
Rischio guerra civile
Ora la parola è passata alle armi e sarà difficile ricomporre. Per il momento sembra prevalere l’esercito federale ma ci sarà da attendere.
Le notizie dell’arresto della leadership tigrina si sono rivelate false e si dice che il Tplf abbia avuto il tempo di armare 250mila combattenti. La maggioranza di costoro per ora si mescola alla popolazione civile; altri si sono ritirati sui monti. Le condizioni per un conflitto prolungato o addirittura per una guerra civile ci sono tutte.
C’è da sperare che passata l’attuale fase molto propagandistica (c’è chi dice anche che truppe eritree sarebbero entrate in Etiopia: notizia non confermata), prevalga la ragionevolezza e si trovi qualcuno che riannodi i fili del dialogo.
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