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L’approccio strategico della comunità internazionale cambia ciclicamente all’insorgere di nuove minacce.
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L’Ue ha avviato a partire dal 2016 un percorso comune con l’ambizione di diventare «fornitore globale di sicurezza», ma per garantire un sistema efficiente occorre superare la frammentazione della spesa e aumentare il coordinamento tra i 27 stati.
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Il testo fa parte del nuovo numero di Scenari: “Cosa resterà della politica estera di Draghi”, in edicola e in digitale da venerdì 23 settembre.
Il 2020, dal punto di vista della sicurezza, è stato uno degli anni più difficili dalla fine della Seconda guerra mondiale. Già nell’ultimo trentennio, come visto nei capitoli precedenti, l’evoluzione senza sosta delle forme di minaccia ha imposto un processo di continuo adattamento della nostra strategia e un ruolo maggiormente attivo degli strumenti militari delle potenze occidentali al di fuori dei confini nazionali.
All’incirca ogni dieci anni, l’approccio strategico della comunità internazionale è mutato all’insorgere di nuove minacce. Dai conflitti interstatali degli anni Novanta nelle aree ex sovietiche e nei paesi africani dove il processo di decolonizzazione è stato più tormentato, siamo passati al terrorismo internazionale di matrice religiosa all’indomani dell’11 settembre 2001. Poi negli anni successivi al 2011, in coincidenza con le Primavere arabe, si sono manifestate le cosiddette “minacce ibride”: dallo stato Islamico alle sfide cyber e all’immigrazione irregolare.
Oggi, senza peraltro che le minacce citate finora siano svanite, la pandemia da Covid-19 ha aggiunto conseguenze disastrose dal punto di vista sanitario, economico e della sicurezza. Il tutto mentre alcuni stati, dalla Cina alla Russia sul piano globale, Turchia e Iran a livello regionale, hanno accresciuto la loro assertività alle porte – e in alcuni casi perfino all’interno dei confini – dei nostri regimi democratici.
Come ha detto il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, non siamo dunque in condizione di scegliere quali sfide affrontare di volta in volta. Dobbiamo attrezzarci per fronteggiare minacce che vengono contemporaneamente da est e da sud, instabilità che corrono sulle onde degli oceani e sulle autostrade cibernetiche.
L’approccio europeo
L’Unione europea, in realtà, non parte da zero nell’elaborazione di un approccio globale e sinergico a simili sfide, anche grazie al lavoro compiuto in questo senso da alcuni stati membri tra cui l’Italia.
Nel 2016 l’Ue ha stilato un importante documento, fortemente voluto dall’alto rappresentante per la Politica estera e di Sicurezza di allora, Federica Mogherini, in cui è fissata nero su bianco l’ambizione di diventare un «fornitore globale di sicurezza» (global security provider), predisponendo in tal senso una cassetta degli attrezzi potenzialmente unica al mondo, nella quale si affiancano strumenti economici, politici, diplomatici e – finalmente – militari.
Va nella stessa direzione la dichiarazione programmatica dell’autunno 2019 della presidente Ursula Von der Leyen: la numero uno dell’attuale Commissione europea ha detto di voler dare un’impronta «geopolitica» al suo esecutivo. Infine, il 24 e 25 marzo 2022, la Bussola strategica è stata definitivamente adottata dall’Unione europea.
Si tratta del primo documento strategico approvato ufficialmente dai 27 stati membri, non dalla sola Commissione, contenente direttive politiche generali su come rafforzare la sicurezza e la difesa comune dell’Unione in tutti i settori, compresa la condotta di operazioni e missioni di sicurezza in modo più efficace.
Il cuore della Bussola strategica per la sicurezza e la difesa è però la creazione di una capacità militare di dispiegamento rapido di 5mila militari interforze, multinazionale e multidominio, ideale per essere prontamente utilizzata anche nei teatri non permissivi. Non un punto di arrivo ma, al contrario, un punto di partenza per una credibile Difesa comune europea che possa garantire davvero per l’Unione europea la protezione dei suoi cittadini, dei suoi valori e dei suoi interessi e contribuire alla pace e alla sicurezza internazionale.
Missioni e aree di crisi
L’Unione europea in quanto tale, in aggiunta alle attività dei suoi stati membri, è attualmente impegnata in tre missioni operative (“Irini”, “Ata- 148 missione lanta”, “Althea”) e in quattro missioni di addestramento (Mali, Repubblica Centrafricana, Somalia e Mozambico).
I ragionamenti ricorrenti con maggior frequenza sull’importanza di tutelare i traffici marittimi, per fare un esempio, non sono per fortuna estranei all’Ue. Su una cartina geografica dell’Africa, già oggi è possibile disegnare un triangolo immaginario ai cui vertici sono posizionate tre missioni navali europee che tutelano sicurezza e libertà di navigazione: “Irini”, nel mar Mediterraneo centrale per gestire l’embargo di armi alla Libia, poi in basso a occidente le “Coordinated maritime presences” nel Golfo di Guinea e, in basso a oriente, la missione “Atalanta” nel Golfo di Aden per contrastare la pirateria al largo delle coste somale e con un mandato esteso di recente al contrasto del traffico di armi e stupefacenti.
Le aree di crisi marittima sono in qualche modo tra loro collegate: così dal Golfo di Aden l’attenzione europea dovrà ora spostarsi verso oriente, prima verso lo Stretto di Hormuz (dove non esistono missioni Ue ma una missione a guida francese sì, peraltro con partecipazione italiana), poi ancora oltre verso lo Stretto di Malacca, fino ad arrivare ipoteticamente a una delle aree oggi più calde del pianeta, il mar Cinese dove si affacciano – in senso orario partendo da nord – Corea del Sud, Giappone, Taiwan e Cina.
Ruolo ampio della difesa
Un elemento comune a tutte le attività ricordate finora è la componente di capacity building, per aiutare i paesi terzi a tornare a camminare sulle proprie gambe, un ambito peculiare – che va oltre il classico impegno militare – in cui l’Ue si è ritagliata un proprio spazio autonomo grazie alla varietà degli strumenti messi in campo. Manifestazioni concrete di una ritrovata consapevolezza: un “global security provider” deve affiancare lo strumento dell’hard power a quello del soft power. Lo stesso ruolo di presidente del comitato militare dell’Unione europea testimonia questa proficua presa di coscienza.
Quali sono le funzioni dell’organismo che ho presieduto? Il comitato innanzitutto riunisce periodicamente i capi di stato maggiore della Difesa dei 27 stati membri e su base permanente i loro rappresentanti militari; dirige tutte le attività militari dell’Unione, dalla pianificazione all’esecuzione delle stesse, con il presidente come punto di riferimento per i comandanti delle singole operazioni; fornisce consigli in materia militare alla Commissione per la Politica e la Sicurezza del Consiglio dell’Ue, oltre che direttamente all’alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza.
Essere finalmente consapevoli della necessità di un ruolo ampio dello strumento Difesa nella gestione delle molteplici crisi che ci circondano è, per quanto necessario, soltanto un primo passo. Come dimostrano da ultimo gli sviluppi in Afghanistan, nell’Indo-Pacifico e in Ucraina, l’Unione europea è obbligata a procedere con rapidità in quello che è chiamato “sviluppo capacitivo” dello strumento di Difesa.
Un sistema frammentato
Prima di ricordare brevemente gli altri passi compiuti, premetto che attualmente i ventisette stati dell’Unione spendono circa 230 miliardi di euro (1,34 per cento del loro Pil) per la Difesa, poco meno della Cina e meno della metà degli Stati Uniti (545 miliardi di euro, 3,3 per cento del Pil). Soprattutto, non possiamo fingere di non vedere l’elefante nella stanza, vale a dire la frammentazione della spesa in Difesa a livello continentale. Quanto possono essere efficienti i 178 diversi sistemi d’arma europei a fronte dei 30 americani? Quale è la funzionalità dei 17 sistemi d’arma terrestri (carri armati) o dei 29 sistemi navali (cacciatorpediniere e fregate) europei rispetto all’unico sistema terrestre o ai quattro sistemi navali degli Stati Uniti?
Una simile frammentazione, oltre a essere sempre meno sostenibile in termini di economie di scala, genera una “sovrapposizione” di spese che a livello continentale si stima raggiunga i 100 miliardi di euro l’anno. Non occorre dunque soltanto spendere di più, ma è importante spendere meglio ed evitare duplicazioni. Per questo, per lo sviluppo delle necessarie capacità di difesa, è necessario farsi guidare dalle esigenze operative e non da gelosie nazionali o da interessi di piccolo cabotaggio.
Muove (lentamente) in questa direzione l’Action Plan sulle “Sinergie tra industria civile, della difesa e dello spazio” presentato dalla Commissione europea nel febbraio 2021. L’obiettivo è collegare le tre dimensioni al servizio di un’unica ambizione politica e industriale, la sovranità tecnologica.
Azioni concrete
Fra le undici azioni concrete elencate nel documento, ne sottolineo almeno tre che reputo essenziali: 1) sorvegliare le tecnologie critiche – tra cui vanno inserite almeno cloud, processori, tecnologie spaziali, crittografia quantistica – che dovranno essere oggetto di particolare monitoraggio per ridurre le nostre dipendenze; 2) sviluppare tre progetti “faro”: droni, gestione del traffico spaziale per un accesso indipendente allo spazio, connettività satellitare che si traduce in connettività per tutti, capacità di garantire un back-up delle reti terrestri e sicurezza delle comunicazioni quantistiche; 3) sostenere l’innovazione, in particolare quella “disruptive”, con strumenti di supporto come la rete di incubatori su cui lavora la Commissione.
Dal 2016 l’Unione europea ha avviato il progetto Card (Coordinated annual review on defence): l’obiettivo è quello di superare una pianificazione della spesa e del procurement per la Difesa di carattere “insulare”, cioè che tiene conto delle sole esigenze nazionali e che non prevede nemmeno l’utilizzo di dati e voci comparabili tra i diversi stati membri. Grazie a Card, abbiamo quantomeno una mappatura omogenea delle strategie di spesa nazionali.
Alla fine del 2017 il Consiglio europeo ha poi avviato la Pesco, Permanent structured cooperation o Cooperazione strutturata permanente, uno degli elementi costitutivi dell’attuale politica di difesa dell’Ue. Per arrivare a quell’accordo da parte di ventitré ministri della Difesa, cinque anni fa, è stato decisivo tra l’altro il ruolo dell’allora ministro della Difesa italiano Roberta Pinotti, prima donna a ricoprire il ruolo di responsabile di quel dicastero nel nostro paese, a coronamento di un brillante percorso che l’aveva vista in precedenza presidente della Commissione difesa e sottosegretaria alla difesa.
Al fianco di Pinotti ho lavorato prima come capo di stato maggiore dell’Esercito e poi come capo di stato maggiore della Difesa, potendone apprezzare qualità politiche e umane, oltre a un’indiscutibile visione in materia di Difesa europea. È stata proprio lei ad avviare un’iniziativa diplomatica con i ministri di Germania, Francia e Spagna (tutte donne, per inciso: Ursula Von der Leyen, Florence Parly e María Dolores de Cospedal) per dare concretezza a tale quadro permanente di cooperazione.
Da allora, quindi, gli stati membri che lo desiderano e che sono in grado di farlo possono sviluppare congiuntamente capacità di difesa, investire in progetti comuni e accrescere la prontezza e il contributo a livello operativo delle rispettive forze armate. Uno sviluppo capacitivo di questo tipo rende i nuovi strumenti più rapidamente accessibili per le future missioni militari dell’Ue.
Incentivi economici
Si tratta di un progetto relativamente “giovane” ma che già consente di lavorare con effettiva unità di intenti e mezzi su strategie di addestramento, sistemi marittimi, navali e cyber condivisi. Infine, grazie allo European defence fund (Edf), sono stati istituiti i primi incentivi economici (non solo volontaristici o legali) per procedere su questa strada.
Parliamo, per il periodo 2021-2027, di un fondo da 8 miliardi di euro per finanziare sia attività di ricerca tecnologica in campo militare (2,65 miliardi), sia attività di sviluppo e acquisizione di capacità militari (5,35 miliardi) in modo da mantenere il necessario know-how in Europa.
L’attuale sistema prevede stanziamenti per circa 1 miliardo di euro l’anno per il primo triennio, per accedere ai quali si possono candidare gruppi composti da almeno tre soggetti industriali di tre paesi membri diversi. L’approvazione dei primi soggetti vincitori è prevista per l’estate del 2022.
Vista l’entità dei fondi, sinceramente esigua nella comparazione internazionale, l’Edf si configura come un ottimo strumento per favorire la ricerca sulla componentistica e sulle tecnologie utili per aggiornare sistemi d’arma esistenti. Detto questo, il procurement di sistemi d’arma completamente nuovi richiede invece un impegno economico di portata ben maggiore che, al momento, possono permettersi soltanto i bilanci di alcuni stati nazionali.
Tre progetti per l’Italia
Rimane l’inefficienza di insistere sulla strada dello chacun pour soi. Citerò in questo senso tre progetti di sviluppo comune di sistemi d’arma di prossima generazione ai quali l’Italia e la sua classe dirigente dovrebbero dunque guardare con maggiore attenzione.
Uno di questi è il carro armato di quarta generazione, un tipo di carro del futuro invece che lo sviluppo lineare dei carri armati esistenti; si tratta di un concetto multipiattaforma che coinvolge sia veicoli terrestri, con o senza equipaggio, sia aerei senza equipaggio che vi sarebbero collegati.
Non esiste ancora un progetto ufficiale, anche se nel 2020 Knds (joint venture della tedesca Krauss-Maffei Wegmann Kmw e della francese Nexter Defense Systems) ha ottenuto dalla Bundeswehr un contratto per lo studio e la definizione del sistema main ground combat system; obiettivo dello studio congiunto tra Francia e Germania, della durata prevista di diciotto mesi, è analizzare dettagli della progettazione e presentare l’architettura di una piattaforma comune. Al momento è supportato dalla volontà politica delle due nazioni, Francia e Germania, spinte dalla necessità di aggiornamento delle piattaforme per superare carenze attuali.
La situazione dell’Italia è diversa. Il nostro paese, che nel dominio aereo è avvantaggiato rispetto a Parigi e Berlino grazie allo sviluppo e all’acquisto del caccia di quinta generazione F-35 in tandem con Stati Uniti e Regno Unito, nei prossimi anni dovrà invece spendere per ammodernare la propria capacità terrestre, attualmente deficitaria, per farsi trovare pronto all’appuntamento con il carro armato di nuova generazione.
Per quanto riguarda la capacità aerea, si discute già di velivoli di sesta generazione. Oltre al progetto di caccia a reazione, è da considerare in aggiunta quello dei droni da combattimento. L’idea risale al 2001, sempre su iniziativa franco-tedesca, per sostituire l’attuale Eurofighter e i francesi Raphale entro il 2040.
Il progetto ha avuto un’accelerazione nel 2017 con il rilancio dell’iniziativa dopo la Brexit. Nel 2019 è stata concordata la joint venture tra la francese Safran Electronics & Defense e la tedesca Mtu Aero Engines, a cui lo scorso aprile si è aggiunta un’azienda spagnola, equa condivisione per Next generation fighter. Ma al netto di dichiarazioni di intenti, ci sono divergenze sullo sviluppo del motore del velivolo. Difficile avere primi test di volo nel 2026.
Va letto a sistema con il ben noto progetto del Tempest, portato avanti da Bae System e Leonardo, in sviluppo per conto della Royal Air Force del Regno Unito e dell’Aeronautica militare italiana. Probabilmente dovranno unire le forze per sopravvivere vista la competizione crescente. Difficile che l’Europa possa sostenere due sistemi di combattimento aereo del futuro.
Qui non si parla soltanto di due stili d’arma ma anche di due concezioni diverse: i paesi del progetto Tempest stanno acquistando anche gli F-35, ossia un velivolo da combattimento di quinta generazione; Francia e Germania invece sono focalizzate sul progetto Next generation fighter senza interessarsi agli F-35.
European Patrol Corvette
È nel dominio marittimo che l’Unione europea muove insieme i primi passi, tra l’altro con una brillante dimostrazione di capacità progettuale e diplomatica da parte dell’Italia. Nel programma European Patrol Corvette, l’unico programma navale approvato per ora nell’ambito della Pesco e che vale tra i cinque e i sei miliardi di euro, il nostro paese ha un ruolo guida e la Francia è partner privilegiato.
Naviris, joint venture di Fincantieri e Naval Group, ha firmato nel febbraio 2021 un memorandum of understanding con la spagnola Navantia per la European Patrol Corvette che avrà una lunghezza fino a 110 metri e una stazza non superiore alle 3mila tonnellate, potendo così sostituire in futuro diverse classi di navi, dai pattugliatori alle fregate.
Nel dicembre 2021 è stata ufficializzata la presentazione dell’offerta da parte del consorzio di aziende per il bando Modular Multirole Patrol Corvette lanciato nei mesi precedenti dal Fondo europeo per la Difesa. Un annuncio che ha sancito tra l’altro l’ingresso a bordo di Danimarca e Norvegia, dopo quello di Spagna e Grecia acquisito in precedenza.
Siamo dunque di fronte a un’iniziativa che già sta dimostrando capacità di “aggregare” altri paesi europei, a differenza di iniziative in settori diversi che si sono rivelate più divisive.
Il testo in queste pagine è tratto dal libro Missione. Dalla Guerra fredda alla difesa europea, di Claudio Graziano e Marco Valerio Lo Prete, pubblicato da Luiss University Press (2022).
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