- Il presidente Xi Jinping insiste con la strategia “contagi-zero”, che però svela anche le debolezze del paese.
- Malgrado le perplessità espresse negli ultimi mesi da virologi e policy maker per gli alti costi sopportati dalla popolazione e dal settore dei servizi, Xi ha approvato i duri lockdown messi in atto ancora oggi a Shanghai.
- Serie tv, canzoni, e spettacoli d’ogni genere lanciano lo stesso messaggio rassicurante: il sistema cinese è superiore alle democrazie liberali, perché è capace di proteggere i cittadini, dal Covid, come dalle divisioni sociali, e dalle guerre.
Negli ultimi giorni a Shanghai sono sbarcati migliaia di operatori sanitari da metropoli lontane come Pechino e Tianjin, e perfino dall’isola di Hainan. Per accogliere i contagiati dalla variante Omicron BA.2 con sintomi più lievi sono state approntate strutture pubbliche, come i padiglioni dell’Expo, mentre l’esercito ha distribuito attrezzature mediche e diagnostiche inviate da ogni parte della Cina.
Città che distano oltre 250 chilometri hanno messo a disposizione posti letto per gli ammalati di Shanghai, un migliaio in media al giorno, dieci volte tanto considerando anche gli asintomatici.
Come a Wuhan, sono entrate in azione le “organizzazioni di base” (jīcéng zŭzhī) del Partito comunista (4,86 milioni in tutto il paese), mobilitare per fornire istruzioni e assistenza di base alla popolazione.
La più popolosa delle megalopoli cinesi (25 milioni di abitanti), la metropoli degli affari con il porto più trafficato del mondo è stata divisa in tre aree – 7.624 “chiuse”, 2.460 “controllate”, 7.565 “di prevenzione” – con libertà di uscire di casa rispettivamente: nulla e con controlli rafforzati; nulla con controlli standard; o completa, ma all’interno dell’area stessa. I residenti vengono sottoposti continuamente a test e le aree cambieranno status a seconda dell’evoluzione dell’epidemia.
Una potenza non proprio super
Nell’affrontare l’emergenza Covid più grave dopo quella che nell’inverno 2019 ha fatto 4.512 morti a Wuhan e nella provincia dello Hubei, non mancano le preoccupazioni di carattere sanitario.
I vaccini made in China sono meno efficaci di quelli occidentali, e non ne è stato ancora commercializzato uno con tecnologia mRNA (diversi sono in fase di sperimentazione). Le difficoltà della ricerca sui vaccini hanno evidenziato un ritardo della Cina rispetto ai paesi avanzati in un settore chiave.
Inoltre le strutture della sanità pubblica non sono al livello di quelle dei paesi ricchi: pochi posti letto e terapie intensive in medicina d’urgenza assolutamente insufficienti a fronteggiare un’epidemia (la medicina cinese punta tradizionalmente sulla prevenzione). E nel paese (dove è pienamente vaccinato l’88 per cento della popolazione) soltanto il 55 per cento degli ultra sessantenni ha ricevuto la dose booster, perché la campagna di immunizzazione ha tutelato anzitutto i lavoratori e le attività produttive.
Questi dati di fatto, assieme alla valutazione secondo cui una diffusione massiccia del virus causerebbe all’economia danni maggiori dei rigidi lockdown sperimentati a Shanghai e altrove, favoriscono la cocciuta insistenza della leadership a perseguire la strategia “contagi-zero”, nonostante la velocità di diffusione di Omicron l’abbia trasformata da una grande muraglia a un più modesto strumento di contenimento.
Un paese che cambia nell’isolamento
Malgrado le perplessità espresse negli ultimi mesi da virologi e policy maker per gli alti costi sopportati dalla popolazione e dal settore dei servizi, il 30 marzo scorso l’agenzia di stampa Xinhua è intervenuta per mettere il bollino blu di Xi Jinping sulla strategia: «Il segretario generale Xi Jinping ha diretto personalmente lo spiegamento del lavoro di prevenzione e controllo dell’epidemia e ha stabilito la strategia generale per prevenire i casi importati e i rimbalzi interni e la politica generale di dinamica zero-Covid».
«Dobbiamo mettere il popolo e la salvaguardia delle vite umane davanti a tutto» è lo slogan di Xi, che intercetta le aspettative di una popolazione che ha più paura di noi del virus e, nello stesso tempo, si aspetta un impegno più massiccio dello stato per superare l’emergenza.
Proprio come a Wuhan, anche le misure draconiane e l’organizzazione-assistenza messa in campo dal partito a Shanghai e l’intervento di Xi sono pronti a essere inseriti nella narrazione trionfalistica che il Pcc farà della «guerra popolare contro il coronavirus».
Si tratta di un racconto destinato ad avere una profonda influenza sulla percezione dei cinesi dei rapporti con l’occidente e sulla politica della Cina, che si è vista prima, nel 2018, voltare le spalle dagli Stati Uniti, che dopo decenni di cooperazione le hanno dichiarato una guerra commerciale-tecnologica e che, da ormai due anni e mezzo, è stata sigillata dai suoi stessi governanti, per prevenire l’importazione di “casi dall’estero”.
È un paese che – anche a livello di strategie economiche – ha già iniziato a guardare molto di più dentro sé stesso e molto meno all’estero. Il Pcc ha approfittato di questo lungo isolamento per trasformare l’epopea della lotta al coronavirus in un elemento centrale di quella ideologia informale (un pot pourri di nazionalismo, confucianesimo e marxismo sinizzato) che serve a rafforzare la legittimità del Partito, e che il suo dipartimento di propaganda (attraverso migliaia di uffici regionali, provinciali, cittadini, di villaggio) diffonde attraverso internet, le tv, le radio, i maxi schermi e gli striscioni esposti in ogni strada.
La “superiorità” cinese
Un elemento centrale di questa narrazione è quello che sostiene la “superiorità” del socialismo con caratteristiche cinesi nell’affrontare le crisi. Le immagini, i racconti e le cifre sulle devastazioni che il Sars-CoV-2 ha inflitto all’occidente (984 mila morti negli Stati Uniti, 161mila in Italia) sono stati abilmente contrapposti alla quiete di questo mondo più chiuso – ma confucianamente solidale e diretto dall’alto dal partito, che esalta le sue regole, la sua organizzazione e le sue tradizioni – che è diventato la Repubblica popolare cinese di Xi Jinping.
Le immagini degli ospedali al collasso negli Stati Uniti, dei cortei di protesta contro i lockdown a Londra e Berlino, dei camion militari riempiti di bare a Bergamo – ovvero il contrasto, puntualmente sottolineato dai media locali, tra il “disordine” (luàn) dell’occidente e la stabilità della Cina – hanno rafforzato, più di qualunque altro evento del passato recente (come la crisi finanziaria globale e il terremoto di Wenchuan, entrambi nel 2008) il discorso sulla legittimità del Partito comunista cinese fondato sulla sua capacità di gestione delle crisi e, più in generale, sull’efficienza della sua governance.
Serie tv, canzoni, e spettacoli d’ogni genere lanciano lo stesso messaggio rassicurante: il sistema cinese è superiore alle democrazie liberali, perché è capace di proteggere i cittadini, dal Covid, come dalle divisioni sociali, e dalle guerre.
La narrazione del partito
Per chiarirci come l’esperienza della gestione del coronavirus da parte del Pcc potrà rivelarsi fondamentale nel consolidare il sistema cinese, può essere utile ascoltare direttamente la costruzione ideologica di un accademico shanghaiese.
Il professor Zhang Weiwei ha riassunto cinque caratteristiche fondamentali, riscontrabili nella battaglia contro il coronavirus, che – secondo il direttore del China Institute dell’Università Fudan di Shanghai – distinguono nettamente la Repubblica popolare dall’occidente:
1) l’approccio cinese secondo cui “ogni vita è preziosa” si è dimostrato superiore alla difesa di “valori universali” da parte dell’occidente, perché «è ridicolo che alcuni paesi che non rispettano il diritto alla vita del loro popolo pretendano di insegnare alla Cina i diritti umani»;
2) il popolo cinese ha dato una grande dimostrazione di solidarietà, mentre «alcuni paesi occidentali hanno società profondamente divise, flagellate dagli interessi di parte, dall’egoismo e da governi indifferenti che non godono più della fiducia della popolazione;
3) la responsabilità dimostrata dal popolo cinese durante la pandemia è il contrario della «nozione di libertà, il cuore del liberalismo e della democrazia occidentali, messi a dura prova durante la pandemia»;
4) la pandemia ha dimostrato che «mentre alcuni paesi occidentali sono riluttanti ad assumersi la loro responsabilità in quanto membri della comunità internazionale», l’impostazione giusta è quella della Cina, che considera il mondo «una comunità globale dal futuro condiviso»;
5) la vittoria del “socialismo di mercato” sul coronavirus ha «de-idealizzato il mondo occidentale, il modello occidentale e la narrazione occidentale», perché, grazie all’utilizzo delle tecnologie più moderne, la Cina ha dimostrato che «il sistema politico di un paese moderno nel XXI secolo deve essere in grado generare una risposta rapida, di esprimere una leadership, un coordinamento e una mobilitazione efficienti. Queste capacità sono necessarie per dare al suo popolo libertà e diritti umani nel vero senso della parola».
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