- La combinazione di crisi climatica e guerra in Ucraina ha aggravato le già precarie condizioni alimentari dell’Africa, che negli ultimi decenni è diventata sempre più dipendente dal commercio internazionale di grano.
- Il grande paradosso africano è che nel continente c’è il 60 per cento delle terre arabili al mondo e che fino al 1970 era quasi autosufficiente dal punto di vista alimentare, poi conflitti, scarso sviluppo di infrastrutture e tecnologia e aumento della popolazione hanno completamente cambiato la situazione, oggi aggravata anche dalla crisi climatica.
- La risposta a medio termine potrebbe essere la riscoperta delle coltivazioni locali, che sono anche più climaticamente resilienti alle siccità sempre più frequenti: sorgo, miglio, cassava, ensete, l’alimentazione del continente passa anche da qui.
A molti, in Uganda, la soluzione proposta dal presidente Yoweri Museveni alla crisi del grano è suonata quasi come la nota frase apocrifa di Maria Antonietta sulle brioche: basta pane, ha detto l’immutabile presidente, è giunto il momento di mangiare la cassava. La fonte era discutibile – Museveni è al potere dal 1986, lo stato dei diritti umani nel paese dell'Africa orientale è sempre più problematico – ma l’idea non era sbagliata. L’Uganda spende 120 milioni di dollari all’anno per importare il 90 per cento del grano che consuma, localmente coltivato solo su 16mila ettari. In compenso produce già 4,2 milioni di tonnellate di cassava, un tubero con una buccia spessa e legnosa e una polpa bianca, molto nutriente, senza glutine, ricco di vitamine. La cassava cresce anche nei suoli più marginali e difficili, ha bisogno di poca pioggia, ha tempi di raccolto flessibili ed è adatta a piccole coltivazioni. Insomma, in teoria sarebbe il cibo adatto a rendere l’Africa più resiliente agli shock della distribuzione globale, come quello causato dalla guerra in Ucraina, e alla crisi climatica.
Il cibo dei poveri
Il problema è in parte culturale: la cassava era il cibo della povertà, il pane quello del benessere, un aspetto non di poco conto in paesi a medio sviluppo come l’Uganda, a metà della classifica di reddito pro capite in Africa, né rampante né disperato.
Il fatto, però, è che non basteranno le esortazioni di Museveni a invertire il grande paradosso agricolo africano, un continente che ha il 60 per cento della terra arabile non coltivata al mondo e che fino al 1970 era relativamente autosufficiente dal punto di vista alimentare.
Cinquant’anni di crescita della popolazione, dipendenza dagli aiuti internazionali, conflitti, scarso sviluppo delle infrastrutture e delle tecnologie hanno portato alla situazione in cui siamo oggi: il terrore di un continente in attesa dello sblocco del grano intrappolato nei porti sul mar Nero.
Da lì arriva il 30 per cento delle importazioni dell’Uganda, il 60 per cento della Tanzania, l’80 per cento dell’Egitto. La Nigeria è il quarto compratore di grano al mondo, un quarto di quello che acquista per i suoi oltre 200 milioni di abitanti viene dalle zone in guerra dalla fine di febbraio. Quattordici paesi africani dipendono da Russia e Ucraina per più di metà del loro grano, per metà continente la dipendenza è sopra un terzo.
Cara vecchia sussistenza
Oggi due terzi dei 193 milioni di esseri umani che soffrono di insicurezza alimentare acuta vivono nell’Africa sub-sahariana. Sono 323 milioni (poco meno di un terzo del totale degli abitanti nel continente) gli africani che l’anno scorso hanno avuto problemi a procurarsi del cibo da mangiare.
È successo a un camerunese su due, a sei nigeriani su dieci, a sette kenioti su dieci. Nel 2011 era uscito un lungo rapporto della Fao che provava a rispondere alla domanda più grande: come fa un continente a passare dalla situazione del 1970 (autosufficienza e immenso potenziale di terra coltivabile) a quella contemporanea (fame e dipendenza).
La risposta, in sintesi, era: non si sa, troppo difficile dirlo. Troppe variabili in gioco, nessuna risposta certa, nessuna strategia agevole per uscirne.
Il guaio è che rispetto ai fattori storici – infrastrutture, povertà, corruzione e conflitti – e a quelli contingenti – la guerra in Ucraina –c’è anche la grande ombra secca della crisi climatica. L’Africa orientale è uscita a pezzi dagli ultimi quattro anni senza precipitazioni, negli ultimi quarant’anni non aveva mai piovuto così poco, e quello che non ha fatto la siccità lo hanno fatto le locuste.
In un paese relativamente sviluppato come il Kenya sono morti 1,5 milioni di capi di bestiame nell’ultima ondata di siccità. Per l’Etiopia impegnata nella guerra civile è la peggiore siccità da cinquant’anni.
In Somalia il 40 per cento della popolazione è sull’orlo della carestia, sono 350mila i bambini che potrebbero non sopravvivere, hanno fatto sapere le Nazioni unite. Il clima produce effetti a catena globali: il principale candidato a compensare le esportazioni di Russia e Ucraina è l’India, ma l’eccezionale ondata di calore tra marzo e maggio ha mandato in crisi i raccolti e il governo ha fermato le esportazioni. Oggi il 16 per cento delle calorie destinate al commercio globale sono ferme a causa di restrizioni o bandi all’export.
La risorsa chiamata cassava
Il network francese di centri studi sull’agricoltura Consultative Group on International Agricultural Research (Cgiar) ha pubblicato un rapporto con le sette misure da prendere per uscire da questa strettoia della storia in cui una guerra in Europa orientale affama l’Africa sub-sahariana.
Alcune sono policy a breve termine, come il controllo degli indici dei prezzi, ma quelle più interessanti ci portano nel medio e nel lungo termine e combinano l’indipendenza con la capacità di adattamento alla crisi climatica.
La malnutrizione africana si attenua, spiega il rapporto, aumentando la produzione in Africa, diversificandola e rendendola adatta a un mondo sempre più caldo.
Insomma, arare quel 60 per cento di terre arabili globali che sono a sud del Sahara, cercando alternative locali a prodotti che in Africa non possono più crescere sulla scala necessaria per sfamarla. In pratica: la cassava di Museveni.
Ma anche il sorgo e il miglio, che resistono meglio alla siccità e sarebbero in grado di prosperare anche in terreni difficili come quelli del Sudan.
O l’ensete, che in Africa chiamano anche finto banano, del quale, a differenza del banano vero, si mangiano i corpi vegetativi e non i frutti, altra coltivazione stigmatizzata socialmente (cibo dei poveri, che puzza, che indebolisce) da recuperare, perché ha una straordinaria capacità di resistere alle siccità. È originario dell'Etiopia ma il suo areale potrebbe coprire buona parte dell'Africa orientale e meridionale.
La fotografia della fragilità mondiale è in questo dato: oggi 13 prodotti forniscono l’80 per cento delle calorie vegetali consumate nel mondo. La metà sono grano, granturco e riso. Questi prodotti non sono solo poco adattabili ai cambiamenti climatici, sono anche incredibilmente concentrati geograficamente.
Secondo i dati dell’Us Department of Agriculture, sette paesi coprono l’86 per cento del fabbisogno di grano, tre paesi il 68 per cento delle riserve, mentre quattro paesi coprono l’85 per cento delle esportazioni di granturco e due paesi l’82 per cento delle riserve.
Numeri che, combinati con il 1,1° gradi di attuale aumento delle temperature, rischiano di essere una condanna a fame cronica per un intero continente. Come per l’energia in Europa, la risposta al grande paradosso africano è la diversificazione.
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