Presidenti e commissari che, finito l’incarico, hanno assunto incarichi in banche come Goldman Sachs o società come Uber: si chiamano “porte girevoli” e a quanto pare Bruxelles non riesce proprio a fermarle. Eppure un modo ci sarebbe. Ne sta discutendo l’Europarlamento
- La commissione ha appena perdonato all’ex commissario Günther Oettinger un ruolo come consulente tutt’altro che trasparente e un incarico controverso ricevuto dal premier ungherese
- Prima c’era stato il valzer di porte girevoli della commissione Barroso: almeno otto membri hanno ricevuto incarichi discutibili. Neelie Kroes, che aveva preso le parti di Uber, lì è stata assunta.
- Barroso stesso ha fatto scandalo per il suo incarico a Goldman Sachs. Da quell’episodio è nato un tentativo di riforma del sistema etico delle istituzioni: arriva ora sul tavolo dell’Europarlamento una proposta di riforma.
Il primo a fare scandalo fu José Barroso, presidente della Commissione europea dal 2004 al 2014. Nel decennio della sua presidenza, l’Europa ha attraversato la crisi finanziaria. Due anni dopo la fine del suo incarico, Barroso è diventato presidente non esecutivo, oltre che consulente, della banca d’affari statunitense Goldman Sachs. L’ultimo in ordine di tempo è il tedesco Günther Oettinger, ex commissario rimasto in carica dal 2010 per nove anni consecutivi, pur con qualche cambio di portafoglio, così potente da rimanere irremovibile nonostante una sfilza di polemiche e le conseguenti richieste di dimissioni. Ora che è uscito da Palazzo Berlaymont, la sede della Commissione, Oettinger pare resistere anche a un nuovo scandalo: quello che riguarda le revolving doors, le porte girevoli e cioè il passaggio da incarichi politici e istituzionali a ruoli in aziende ed enti d’affari, con tutte le implicazioni che possono conseguirne. Ecco i protagonisti principali dei “giri di porta” nella Commissione, e i tentativi in corso per arginarli.
Le scivolate di Oettinger
Oettinger arriva da Stoccarda, e dallo stesso partito della cancelliera Angela Merkel, l’unione cristiano-democratica. Comincia la carriera di commissario con la delega all’Energia quando ancora è presidente José Barroso, ma continua sotto la presidenza di Jean-Claude Juncker, prima occupandosi di economia e società digitali. Nel 2017 ottiene il portafoglio di Kristalina Georgieva, quando quest’ultima lascia Berlaymont - e la delega al Bilancio - per tornare alla Banca mondiale. Oettinger si trova quindi a maneggiare un budget annuale che all’epoca è di circa 160 miliardi di euro. Nel frattempo colleziona scivoloni, a parole e nei fatti. Propone che i paesi con alto debito pubblico espongano la bandiera a mezz’asta, ipotizza il commissariamento della Grecia. Dell’Italia dice nel 2013 che «è ingovernabile» e cinque anni dopo che «i mercati dovrebbero insegnarle come si vota». Poi si scusa, ma intanto mentre è commissario tira colpi ai valloni («minuscola regione governata da un pugno di comunisti»), alle donne («molte hanno il lavoro che hanno solo perché femmine»), i ministri cinesi («gli occhi a mandorla»).
Il jet e l’Ungheria
E poi ci sono quelle strane mosse, come quando nel maggio 2016 il commissario tedesco si reca in Ungheria, per una conferenza sul futuro del settore automobilistico, a bordo di un aereo privato di Klaus Mangold. Mangold non è solo un uomo d’affari tedesco (ex manager della casa automobilistica Daimler), ma è pure un lobbista (però non iscritto al registro e quindi meno tracciabile) e ha connessioni strette con il Cremlino. Quel “passaggio” in jet viola le regole Ue perché i commissari non possono accettare doni superiori a 150 euro. C’è di più: la giustificazione di Oettinger è che, volendo incontrare Viktor Orbán, quel volo privato è stato l’unico modo per arrivare a Budapest in tempo. Quest’anno Oettinger ha accettato un incarico proprio per il premier ungherese, che lo ha nominato capo del comitato scientifico da lui creato per rafforzare il controllo governativo sul settore accademico. Ma la porta girevole che mette ancor più in imbarazzo Bruxelles riguarda il nuovo ruolo di Oettinger come consulente.
La società di consulenza
Quando è ancora commissario, si distingue per la vicinanza al mondo delle lobby. Nonostante l’indicazione del presidente Juncker di incontrare pure la società civile e altri portatori di interessi, Oettinger svolge il novanta per cento dei suoi meeting con lobbisti delle imprese. Una percentuale inedita, e che rende conto solo degli incontri trasparenti (come dovrebbero essere) ma non il passaggio in aereo con il lobbista russo e altri rendez-vous non dichiarati. Poi nel 2019 l’incarico a Berlaymont finisce, e nasce la società di consulenza Oettinger consulting. E chissà, forse nasce persino prima, mentre lui è in carica. Margarida Silva ha seguito il caso per il Corporate european observatory, osservatorio che fa luce sull’influenza delle corporation nell’elaborazione politica europea. Dice che «questo è un caso esemplare di porta girevole perché il commissario non ha fatto nemmeno passare del tempo tra quando ha lasciato i pubblici uffici e quando ha iniziato il suo business come consulente delle aziende».
Il timore in questi casi è che le conoscenze (e le influenze) acquisite con l’incarico istituzionale vengano usate a beneficio dei nuovi committenti. In più «è plausibile che Oettinger abbia imbastito la sua attività addirittura quando era ancora in Commissione: quattro mesi dopo averla lasciata aveva già i primi clienti». E poi, che tipo di attività svolge per loro? «Non ha reso pubblico cosa fa e per chi. La ciliegina sulla torta è che potrà tenere riservati i contratti che stipula». Il sito della Oettinger consulting promette di «aiutare a ottenere finanziamenti e far crescere le attività». Formalmente è nata da poco ma ha già «aiutato più di centodieci start-up». Del resto Oettinger con le start-up deve saperci fare: era commissario all’economia dell’era digitale…
Tutti i giri di porte
Poi ci sono tutti quei commissari che, invece di prestare consulenze a più aziende, finiscono direttamente sotto l’ombrello di una corporation. L’ex collega di Oettinger, il britannico Jonathan Hill, che aveva la delega ai servizi finanziari e che lasciò la Commissione Juncker subito dopo il voto su Brexit, sette mesi dopo aver salutato Bruxelles già lavorava per uno studio legale specializzato in attività lobbistica, Freshfields Bruckhaus Deringer. E non si è accontentato: lui che in commissione si occupava proprio di finanza, ha pure assunto un ruolo nella banca svizzera Ubs; «conosce sia Uk che Bruxelles, sa relazionarsi alle autorità e convincerle delle opportunità per il business» è la motivazione data dalla stessa Ubs quando lo ha scelto come consulente su Brexit. Se si va dalla commissione Juncker a quella Barroso, il valzer delle porte è ancora più affollato: almeno otto membri hanno casi di porte girevoli. La commissaria prima alla Concorrenza e poi al Digitale Neelie Kroes, tempra di acciaio che le valse il soprannome di Steelie Neelie, finito l’incarico è diventata consulente di una banca, Merrill Lynch, ed è entrata nella famiglia di Uber. Kroes quando era ancora nell’esercizio delle funzioni di commissaria ha spesso preso le difese di Uber, quando l’azienda “litigava” con Bruxelles e le sue regole, e si è pure espressa contro il fatto che alcuni paesi volessero metterla al bando; di fronte a un pronunciamento anti-Uber della Corte di giustizia europea, si disse addirittura «indignata». Poi uscita da palazzo Berlaymont guarda caso è entrata proprio nel comitato regolatorio di Uber. Viviane Reding, altro volto di punta del team Barroso, all’uscita ha assunto incarichi in aziende (come Nyrstar che si occupa di estrazioni minerarie) e fondazioni che hanno chiesto cofinanziamenti a Bruxelles (la Bertelsmann foundation). Karel De Gucht, ex poltrona al Commercio, ha trovato parecchie poltrone in aziende e banche, da Merit Capital alla società finanziaria Cvc.
Da Goldman Sachs a oggi
Ma il caso più eclatante, e che ha reso evidente anche la necessità di un intervento istituzionale, riguarda proprio Barroso. Dopo essere stato in carica come presidente della Commissione dal 2004 al 2014, e aver gestito dossier determinanti per l’Ue – la crisi finanziaria e quella del debito in Grecia – ha assunto almeno una ventina di incarichi, da sommare all’emolumento da “pensionato” di Bruxelles da dodicimila euro al mese. Ma l’incarico diventato caso internazionale (l’affaire Barroso) è la poltrona da presidente non esecutivo per Goldman Sachs. Si tratta della stessa banca d’affari che dopo la crisi del 2008 fu multata negli Usa per frode e vendita di titoli tossici, e che in Europa è stata accusata di aver mascherato la contabilità del bilancio greco per favorire l’ingresso nella zona euro, e che poi ha speculato sul debito greco, detenuto da paesi come l’Italia. La pioggia di contestazioni per il giro di porta di Barroso, compresa una petizione che ha raccolto centinaia di migliaia di firme, non ha risolto nulla di concreto ma ha esposto la gravità di queste commistioni tra pubblico e privato.
Come mai al di là dei proclami (lo stesso Juncker chiese una indagine sul caso, commentando che «il problema non è che lavora in una banca, ma in quella banca») le porte girevoli non vengono fermate? I trattati europei obbligano alla limpidezza etica gli ex commissari, inoltre esiste un codice etico – una derivazione dei trattati – che obbliga a notificare le attività fino a 18 mesi dalla fine del mandato. Il comitato etico che ha giudicato Barroso (e i cui tre saggi erano tutti legati a lui, per esempio uno dei tre è stato da lui promosso direttore generale) ha considerato solo l’obbligo di notifica e non la correttezza di fondo, e ha concluso che «l’ex presidente non ha violato le regole». La garante europea, la “ombudsman” Emily O’Reilly, dopo aver eseguito un’indagine, nel 2018 ha accusato la Commissione di “cattiva gestione” del caso e ha chiesto che il comitato rivedesse la sua valutazione: l’ex presidente aveva pure tradito l’impegno di non fare attività lobbistica presso la Commissione. O’Reilly è rimasta inascoltata.
La riforma da fare
Il clamore scatenato dal caso ha portato a una revisione del codice etico: dal 2018 il periodo in cui, usciti da Berlaymont, bisogna comunicare (entro due mesi) la nuova attività è stato portato a 24 mesi invece di 18. Due anni è pure il tempo in cui vale il divieto di fare attività lobbistica su temi inerenti al portafoglio che si aveva. L’impegno che vale sempre è quello di mantenere integrità e discrezione, durante e dopo l’incarico. Ma la revisione non ha impedito che i nuovi casi, come quello di Oettinger, venissero avallati: questo 30 settembre la Commissione ha ammesso che sulla sua attività di consulenta «il Comitato etico ha espresso parere contrario», perché «non Oettinger non ha chiarito che attività svolgerà per i suoi committenti»; ma non ha tratto conseguenze, ha solo elargito raccomandazioni. Eppure, quando si è insediata, la presidente Ursula von der Leyen ha promesso di mettere in piedi un comitato etico indipendente (dunque esterno alla Commissione) e di livello europeo (mentre finora ogni istituzione Ue ha il suo).
Il giurista Alberto Alemanno sta lavorando a un dossier sul tema per l’Europarlamento: ha fatto una mappatura dei regimi giuridici dei comitati etici di ogni istituzione Ue e ha elaborato una proposta, un “modello ideale”. «Finora - dice - tutti i sistemi di controllo sono nelle mani dei presidenti delle istituzioni in questione: sono loro che nominano i membri (seguendo criteri più o meno bipartisan) e sono loro che decidono che fine fa un dossier, visto che i comitati etici esprimono pareri non vincolanti. La trasparenza è poca, le sanzioni sono poco incisive». La proposta che Alemanno consegnerà all’Europarlamento è che il comitato, da immaginare centralizzato, composto da membri esterni e indipendente, debba anche avere diritto di iniziativa e potere di investigazione: deve poter scovare da sé tutti i giri di porte. Se dovesse andare in porto, ci sarà molto da fare.
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