La decisione del ministro degli Esteri Antonio Tajani, vicepresidente del Consiglio, di nominare un ambasciatore a Damasco, riportando la nostra ambasciata all’attività normale e riprendendo relazioni quotidiane con il governo di Bashar al Assad, rappresenta una novità che rompe l’unanimismo finora mantenuto tra gli stati membri dell’Unione europea.

Roma ha preso tale iniziativa insieme a Vienna e con l’appoggio di altri stati, anche perché alcuni paesi europei, come la Repubblica Ceca ad esempio, non avevano mai interrotto le proprie relazioni con la Siria.

Tuttavia l’Italia, quale paese fondatore dell’Ue, fa un passo inatteso, senza aspettare le decisioni di Francia e Germania come si fa di solito. Forse è complice anche il clima difficile che si è venuto a creare a Bruxelles sui top jobs a causa dell’insoddisfazione italiana.

Più probabilmente si scontano i cattivi rapporti con Josep Borrell, l’uscente Alto rappresentante della politica estera e di sicurezza europea, che ha compiuto un gesto contro l’Italia simile a quello dell’altro uscente, il segretario della Nato Jens Stoltenberg: mentre quest’ultimo ha nominato (quasi fuori tempo) uno spagnolo come nuovo inviato per il Fronte Sud – posto richiesto dagli italiani e creato su nostra indicazione – Borrell ha acconsentito alle pressioni francesi di non rinnovare il mandato a Emanuela Del Re come inviato speciale Ue per il Sahel, preferendole un rumeno.

Anche in questo caso una decisione presa in scadenza di mandato, quindi particolarmente scorretta e dettata dalla diversità di vedute sulle relazioni da avere con Mali, Burkina Faso e Niger, dove l’Italia mantiene a Niamey i propri militari.

Conflitto a bassa intensità

Sta di fatto che Tajani ha comunicato a Borrell la decisione quando Roma l’aveva già presa, ben conoscendo la contrarietà di quest’ultimo. In altre parole: se non la si ascolta e ci si fa beffe di lei, l’Italia va per la sua strada.

Ma la decisione su Damasco non dipende dalle scaramucce brussellesi, pure importanti per capire il clima che vi regna. Si tratta invece di una determinazione maturata nel tempo a cui hanno contribuito altri e più significativi fattori.

La situazione in Siria è ormai tipica delle guerre contemporanee: un conflitto che non termina ma si prolunga a bassa, talvolta bassissima intensità, tanto da sembrare in stallo. Com’è noto, Russia, Turchia e Iran si dividono il controllo del territorio siriano anche se il regime di Damasco progressivamente riprende il dominio diretto su aree sempre più vaste.

D’altronde non è interesse russo gestire la popolazione, ma solo garantirsi l’accesso strategico e mantenere operative le proprie basi militari e navali. Dal canto loro i turchi si sono assicurati la supervisione della fascia lungo la frontiera con la Siria fino all’Eufrate, oltre che la zona di Idlib dove si concentrano i resti dei combattenti ribelli anti Assad, tra cui anche i jihadisti di al Qaeda.

Infine gli iraniani sono interessati a fissare sul territorio siriano quanti più combattenti sciiti possibili e di qualunque provenienza, assieme alle loro famiglie, per rafforzare il cambiamento etno-religioso del paese (la fuoriuscita dal paese di circa 6 milioni di siriani sunniti li favorisce), consolidando di conseguenza l’arco sciita in uno stato alleato ma pur sempre guidato dagli alauiti laici.

Scelta pragmatica

Gli Stati Uniti rimangono presenti con il minimo sforzo (900 militari) quali garanti dei curdi siriani del Rojava, anche se nessuno è in grado di prevedere fino a quando.

Il governo di Damasco non pare aver fretta di sbarazzarsi degli stranieri (alleati o avversari che siano): Assad è consapevole che il tempo gioca a suo favore e conta sulle amicizie strette in questi anni. Il leader alauita è appena stato a Mosca da Vladimir Putin, è riuscito a far riammettere il suo paese nella Lega araba e sta gradualmente uscendo dall’isolamento internazionale.

Le guerre di Ucraina e Gaza hanno mutato l’intero quadro globale e regionale: restare alla finestra non pare più una buona politica per l’Europa. Tra l’altro Roma ha dalla sua gli aiuti umanitari che sono comunque giunti in Siria in questi ultimi anni mediante varie filiere della chiesa cattolica.

Tutto questo ha convinto il governo italiano a riprendere i contatti a livello diplomatico, dopo aver constatato che occorreva una presa d’atto pragmatica della situazione reale.

Solo con una presenza istituzionale adeguata è possibile avere un’influenza, che tra l’altro va completamente ricostruita. Prima delle Primavere arabe e della guerra, l’Italia era il primo partner commerciale della Siria: aver perso quella posizione (come del resto è avvenuto anche in Libano e sta avvenendo in Tunisia) non ha certo giovato alla nostra influenza nel Mediterraneo né è stato altrimenti ricompensato.

I rapporti Russia-Turchia

Infine il quadro generale dell’area un tempo denominata dagli occidentali Siraq (cioè le zone di guerra Siria e Iraq) è in totale sommovimento. Tra Russia e Turchia sta cambiando qualcosa: Mosca vorrebbe staccare ancor più Ankara dall’Occidente e per questo chiude un occhio sui voli di droni turchi che si spingono oltre l’area di Idlib a caccia dei leader curdi.

Gli Stati Uniti hanno istallato un sistema di difesa aerea nella zona curda, per difesa locale ma anche per intercettare eventuali attacchi dall’Iran verso Israele. Questa situazione coinvolge anche l’Iraq settentrionale, dove la Turchia ha creato un corridoio simile alla frontiera per opporsi al Pkk, il Partito dei lavoratori curdi considerato organizzazione terrorista.

L’intera regione dell’Iraq del nord è ormai terreno di scontro tra turchi e curdi del Pkk, mentre sia le forze nazionali irachene che i peshmerga curdi iracheni si sono ritirati. Ankara cerca di convincere Baghdad che la presenza del Pkk è diventata un pericolo per la sua stessa sicurezza.

Le operazioni turche mirano a chiudere i valichi di frontiera tra Iran e Iraq, mentre Baghdad sta costruendo trincee e muri di filo spinato alla frontiera con la Siria, come vogliono i turchi, per evitare ogni contatto tra curdi siriani e iracheni.

Le ultime notizie riportano che nel Rojava i curdi starebbero organizzando elezioni per questo agosto, un detonatore per un ulteriore attacco della Turchia, che ha già dichiarato di non poter tollerare una simile manifestazione di autonomia. La questione siriana è quindi al centro di mutevoli cambiamenti, e la decisione della Farnesina di riprendere in toto l’azione diplomatica è dettata soprattutto da tali emergenze.

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